Il “Dilemma del porcospino”, è stato introdotto, a metà Ottocento, dal filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, per evidenziare come quest’animale, poco socievole, fosse costretto ad avvicinarsi agli altri per riscaldarsi pur subendo il fastidio degli aculei reciproci. La soluzione pragmatica, nel pessimismo del filosofo tedesco, era di mantenere una certa distanza tra i porcospini; l’ideale sarebbe stato di poter beneficiare del calore senza rischio di pungersi.
Il suo paradigma è, ovviamente, rivolto alla convivenza umana, alla socialità e alla convinzione che due individui non possono essere vicini più di tanto poiché entrerebbero in collisione. Il suo consiglio è di rinunciare a una relazione vera e profonda, tenendola tiepida e limitata, pur di evitare frizioni.
Questa “teoria” ha avuto un seguito enorme. La “distanza di sicurezza” comporta un vivere tiepidi che, al contrario, non assicura quella protezione prospettata (che si rivela solo apparente). È proprio nell’interazione sociale, infatti, che l’essere umano costruisce la propria personalità, migliora le proprie capacità ed è di conforto all’altro; in più, a livello evolutivo, concorre a una maggiore immunizzazione.
Il muoversi circospetti, guardinghi e diffidenti, invece, rende privi di esperienze significative, impedisce di donarsi al prossimo e contribuisce all’ostracismo sociale nei confronti dell’altro; lo sviluppa anche nei propri confronti, contribuendo a un isolamento forzato. L’approccio difensivo, rinunciatario, può portare, in molti casi, a una politica di isolamento continuo sino a giungere a forme di solitudine che, costituiscono, come noto, delle gravi situazioni per la condizione umana, con ripercussioni enormi e diffuse.
Il filosofo idealizza pure la possibilità di poter fare a meno del prossimo ed evitare, così, qualsiasi rischio. Coloro (soprattutto giovani) che soffrono di “ritiro sociale”, di clausura nelle mura domestiche, come nel noto fenomeno giapponese degli hikikomori, sembrano aver posto in essere i “consigli” di Schopenhauer.
Non tutti i filosofi hanno avuto tale percezione della socialità, fra questi, Aristotele, che conferiva valore immenso all’amicizia, disinteressata, considerando l’amico come “un altro se stesso”. La ferita di un aculeo, semmai va considerata come “compassione” nel senso più alto, cioè condividere il dolore altrui. Ribaltare il concetto: non aver paura che i problemi altrui e la vicinanza possano infastidire bensì porsi in costante ascolto e supporto fisico.
Un atteggiamento iperdifensivo, iperprudenziale, non consente di sviluppare le relazioni sociali, di qualunque tipo, in modo sano, corretto, genuino e funzionale. Basti pensare al gruppo dei pari o alle situazioni lavorative nonché ai rapporti sentimentali che, spesso, poggiano su delicati equilibri fra difesa e attacco. In quest’ultimo caso, si pone un altro dilemma: è normale sacrificare un intenso rapporto sentimentale in virtù di un’autonomia da difendere con i denti? Tutto ciò è compatibile con una vita d’amore in simbiosi (senza annullarsi l’un nell’altro)?
L’essere umano è un animale sociale, nato per vivere in comunità e per trarre, dalle relazioni sociali, la possibilità di sopravvivere, amare, costruire, elevarsi. L’indifferenza, la presunta accortezza di non spingersi negli affetti, di rimanere tiepidi e opportunisti, sono elementi che spingono all’egoismo e alla vacuità dell’essere umano, sino alla sua fine, spirituale e fisica.
Sapersi relazionare con il prossimo significa accettare anche gli aspetti negativi. Un’eventuale delusione, un disguido, una puntura di aculeo non feriscono a morte poiché la persona intelligente sa valutare e, con il dialogo e l’esempio, arriva alla radice del problema e lo risolve.
La pace, a cui si aspira, nasce proprio dal contrario di tale dilemma, da una base, quotidiana, di compartecipazione e condivisione. In realtà non si tratta neanche di dilemma: è un’analogia senza senso, sconfessata anche da moltissimi (altri) esempi del mondo animale.
Le parole di Papa Francesco nel videomessaggio del 24 novembre 2016 per il Festival della dottrina sociale della Chiesa “La nostra umanità si arricchisce molto se stiamo con tutti gli altri e in qualsiasi situazione essi si trovano. È l’isolamento che fa male non la condivisione. L’isolamento sviluppa paura e diffidenza e impedisce di godere della fraternità. Bisogna proprio dirci che si corrono più rischi quando ci isoliamo di quando ci apriamo all’altro: la possibilità di farci male non sta nell’incontro ma nella chiusura e nel rifiuto. La stessa cosa vale quando ci facciamo carico di qualcun altro: penso a un ammalato, a un vecchio, a un immigrato, a un povero, a un disoccupato. Quando ci prendiamo cura dell’altro ci complichiamo meno la vita di quando siamo concentrati solo su noi stessi. Stare in mezzo alla gente non significa solo essere aperti e incontrare gli altri ma anche lasciarci incontrare. Siamo noi che abbiamo bisogno di essere guardati, chiamati, toccati, interpellati”.
“Dalla distanza alla relazione” è il titolo del volume pubblicato da “Mimesis” nel novembre 2020. L’autrice, la professoressa Marisa Musaio, pedagogista, precisa “Accade che eventi non previsti, a cui la vita ci pone di fronte, si ritaglino un ruolo non trascurabile, delineandosi come opportunità per riconsiderare la condizione di discontinuità e di distanza tra gli esseri umani. Come emerge dalle ferite dell’emergenza sanitaria, sociale ed educativa”.
psicologionline, al link https://www.psicologionline.net/articoli-psicologia/articoli-sesso-amore/relazioni-a-distanza, ricorda “Sempre più coppie oggi vivono una relazione a distanza. Si stima che in Italia sono circa 2 milioni e mezzo, tra lavoratori e studenti, le persone che vivono lontane dal proprio partner. Il fenomeno sta crescendo esponenzialmente, da un lato per la crisi lavorativa attuale e dall’altro per l’uso delle nuove tecnologie, come le chat e le videochiamate, che accorciano notevolmente le distanze”.
La socialità virtuale del web, sempre più sostituitasi a quella vera, rappresenta una sfida enorme, poiché non poggia sul contatto fisico ed esaspera, spesso, concetti e pensieri. Pone distanze enormi, anziché colmarle (come sembrerebbe). La polemica è sempre in agguato, si ha paura di essere feriti dalle spine altrui ma si pongono bene in chiaro le proprie.
wearesocial.com, al link https://wearesocial.com/it/blog/2023/01/digital-2023-i-dati-globali/, il 24 gennaio scorso ha pubblicato una dettagliata serie di dati riguardanti la “socialità” contemporanea. Fra questi, si legge “La popolazione mondiale ha superato gli 8 miliardi il 15 novembre 2022 […] Poco più del 57% della popolazione mondiale vive in contesti urbani. 5,44 miliardi di persone usano telefoni cellulari, pari al 68% della popolazione mondiale. Gli utenti unici di dispositivi mobili sono aumentati di poco più del 3% lo scorso anno, con 168 milioni di nuovi utenti negli ultimi 12 mesi. Ci sono 5,16 miliardi utenti di Internet, il 64,4% della popolazione mondiale è ora online. Il totale degli utenti Internet globali è aumentato dell’1,9% negli ultimi 12 mesi […] Ci sono 4,76 miliardi utenti dei social media in tutto il mondo, pari a poco meno del 60% della popolazione mondiale. La crescita è rallentata negli ultimi mesi, con 137 milioni di nuovi utenti, pari a una crescita annua del 3%”.
Creare relazioni interpersonali non significa cedere la propria autonomia o privarsi della libertà; la vita è, inoltre, un alternarsi di situazioni in cui si è soli ad altre in cui si vive a stretto contatto, in alternanza proficua e costruttiva.
L’altruismo non impoverisce la personalità e la libertà, anzi, in una comunità salda, attraverso il dialogo e l’ascolto, cementa ed eleva ognuno.
Un sano rapporto sociale non deve neanche svilupparsi in dipendenze affettive di qualsiasi tipo, non sarebbe tale. Devono sussistere pari condizioni e rispetto, senza alcuna subordinazione.
Nel periodo del lockdown, l’umanità ha sperimentato forme di chiusura, di isolamento e di distanziamento sociale che hanno avuto ripercussioni psicofisiche nel presente e che si protraggono nel tempo, a danno di giovani, adulti e anziani.
Porre barriere e confini non è certo l’approccio corretto per sanare i contrasti e le incomprensioni: ci si illude di risolverli ma, in realtà, si amplificano. Gli steccati umani indeboliscono tutti, anche quelli che, in virtù di questi paletti, si considerano più al sicuro.
Gli ultimi del pianeta non hanno aculei di cui preoccuparsi e stringono, fra loro, comunità intessute e profonde, senza riserve e, in tal modo, sopravvivono nonostante l’indifferenza dell’opulente resto del globo. Fanno comunità, le barriere esterne le subiscono ma non le creano. La “famiglia umana” cresce dalle radici non dalle spine.