La pandemia ha messo in luce una nuova emergenza sociale “I nuovi poveri”. Troppe persone si sono affacciate al mondo della povertà, costrette a dover chiedere aiuto. In tanti è prevalso il senso di vergogna. Un mondo di “sommersi” che non riesce ad uscire fuori, come si può trovare la forza in questi periodi per poter chiedere aiuto? E soprattutto chi è fuori come può “aiutare a lasciarsi aiutare”? Interris.it lo ha chiesto alla dottoressa Pamela Pace, psicologa e psicoterapeuta per capire anche quali strascichi si hanno sulla mente delle persone quando si vivono nuove forme di povertà.
“L’epoca ipermoderna, caratterizzata dalla frantumazione dei legami sociali, effetto di un diffuso cinismo narcisistico, e permeata da un forte individualismo, crea solitudini e silenzi. La pandemia ha senz’altro prodotto nuove emergenze sociali evidenziando un binomio: solitudine e paura, anzi, solitudine e angoscia. Quete sono legate alla disperazione, alla perdita di speranza. Ritengo quindi che nel sociale attuale vi sia un aumento di una sofferenza senza indirizzo, orfana di uno sguardo. É infatti venuta sempre più a mancare l’importanza di una dialettica nelle interrelazioni tra individuo e comunità, così come il coraggio di perdere qualcosa come dono all’altro, di desiderare, oltre al proprio bene, il bene dell’altro. L’altruismo ha sempre più preso la forma della paura e della distanza dall’altro. Penso che in generale, ma non per tutti, si sia indebolito il valore della reciprocità, come solidarietà”.
A cosa si riferisce in particolare?
“Mi riferisco a quella energia psichica, vicina allo tzumòs con cui gli antichi greci indicavano l’essenza dell’anima, il desiderio, necessari in una scelta coraggiosa di cambiare stile di vita, adattando sempre più le esigenze individuali a quelle della comunità. Ma oggi, l’uomo, sente ancora tale desiderio? Noi psicoanalisti ne avvertiamo sempre meno la presenza. Tuttavia c’è un ampio spaccato del sociale, della polis che dà testimonianza di tale posizione etica: la “grande macchina dei volontari”. (come riporta il Corriere della Sera di domenica 15/11/2020). Là dove c’è desiderio di aiutare, una posizione cioè vicina al significato di tale termine (in greco epithymía), si rianima un sentimento che rimanda alla legge dell’amore come movimento che si apre radicalmente verso l’altro, come donazione senza risparmio di se stessi che ricorda in modo singolare il motto di Agostino: “ama e fa’ quel che vuoi”. Ci si vergogna solo quando qualcuno assiste alla nostra vergogna, la incontra nel nostro sguardo. Si tratta di un gioco di sguardi in cui ci si vergogna della vergogna stessa. Scriveva appunto Eric Dodds “tutto ciò che espone l’uomo al disprezzo o al ridicolo dei suoi simili, tutto quello che gli fa perdere la faccia è sentito come insopportabile”, genera vergogna e ferite. Ecco come l’aiuto donato può essere accettato con dignità, quando si origina dal cuore, dal sentirsi parte di un insieme, in una reciprocità: io do a te e tu dai a me, in un arricchimento reciproco.
Si può parlare di dignità ferita? C’è forse una perdita di auto-stima e paura di non sentirsi più all’altezza?
“Dignità e vergogna si accompagnano, torturano l’anima, l’intimo, e dunque, possono creare delle s-torture nel rapporto del soggetto con se stesso, con l’altro, con l’esistenza stessa. Prezioso l’insegnamento di Spinoza rispetto alla sua geometria delle emozioni, all’interno della quale parla delle passioni tristi e di quelle gioiose, mettendole in riferimento al conatus, cioè allo sforzo dell’essere umano per la propria autoconservazione. Presentarsi a mani vuote per poter ricevere con dignità implica, per me, innanzitutto umiltà e comprensione da parte di chi dona. Cum-prendere, assumere dentro di sé la sofferenza dell’altro : “nec ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere” (non bisogna ridere, né piangere, né indignarsi, ma comprendere). La grande lezione di Anna Harendth riguarda l’utilità del pensiero, del pensare come cum-prensione e dell’interrogarsi per poter interrogare, là dove è proprio nel vuoto dei pensieri che si inscrive il male, inteso come l’odio dell’altro, del diverso che si origina dalla incomprensione, cioè dal non voler comprendere l’altro: un pensiero quindi non dal punto di vista dell’altro”.
Come superare queste paure?
“Non ho una risposta, ma propongo una riflessione: la vergogna, come ogni affetto, si articola in modo stretto all’universo simbolico, alle forme che assume nel corso del tempo e quindi agli ideali dominanti la nostra epoca e agli stili di vita. Questi oggi mostrano piuttosto un’assenza di vergogna e di sensi di colpa. Pensiamo ai tanti fatti di violenza contro i senza tetto, i così detti diversi, per il colore della pelle, per estrazione sociale e, addirittura, perché psicologicamente molto fragili. Agli ideali oggi si sono sostituiti gli idoli, e i codici comportamentali che permeano l’epoca attuale sono ben lontani dall’altruismo, non dischiudono la vita individuale all’altro. Tuttavia le tante associazioni, i luoghi attivi di volontariato nelle aree metropolitane e le organizzazioni di volontari sono possibili ed efficaci trattamenti della paura e un conforto prezioso alla solitudine. Penso anche all’Associazione Pollicino e Centro Crisi Genitori, una Onlus che ho fondato e presiedo che continua, dal mese di marzo e senza interruzione, a fare colloqui gratuiti, webinar gratuiti e ad offrire psicoterapie a tariffe sociali. La sofferenza psicologica, vieppiù in questo periodo, necessita di un luogo di accoglienza simbolica, va ascoltata.
C’è il rischio che queste persone cadano in depressione? Come evitare questa eventuale fase?
“Il rischio c’è sempre là dove vi è una degradazione del soggetto, una sua esclusione e emarginazione dalla vita sociale. É nell’incontro con lo sguardo dell’altro che guarda, giudica ferisce, che il soggetto rischia di cadere, inabissarsi nella sofferenza e abbandonare la presa sulla vita. L’affetto della vergogna sorge quando il soggetto è ridotto al suo essere sguardo, corpo, povertà. Jacques Lacan utilizza il termine di ontalogia – che unisce essere e vergogna – perché vi è un senso che tocca la questione dell’essere. Nell’epoca della spettacolarizzazione, della vetrinizzazione delle nostre vite, è paradossale rendersi conto della cecità e sordità nei confronti di solitudini angosciate dalla povertà e dall’emarginazione”.
Cos’è quindi la vergogna?
“Sartre dice che la vergogna è vergogna di sé di fronte ad altri: allora ci si può chiedere se l’uomo contemporaneo sia svergognato, senza vergogna, data piuttosto la spinta a essere visti, farsi vedere, Pensiamo solo ai social. Il rischio c’è là dove il sociale fa sentire inadeguati, esclusi, senza valore, perché, oltre alla vergogna, altri vissuti, passioni tristi, possono inabissare un soggetto, chiuderlo in un vissuto globale e doloroso che lo coinvolge all’interno e gli fa vedere come insormontabili gli effetti di una vita faticosa. La vergogna può egemonizzare la vita, così come la paura. Io credo nelle risorse dell’uomo, nella forza dell’amore per la vita. Tuttavia è importante che, in questo drammatico momento, governo, e istituzioni, siano attivamente presenti, diano testimonianza del valore di ogni persona, ai doveri ma anche ai diritti che ogni cittadino ha rispetto alla vita della polis, ma anche sostenendo e collaborando con i diversi luoghi, sigle, riferimenti della “macchina del volontariato”. Non è forse questo il senso intimo della politica?”.