Diario di una volontaria in Colombia

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La polvere del terriccio si sparge in aria allo sfrecciare delle ruote della motocicletta, che corre velocissima sul tratto di strada sterrata che inizia all’incrocio tra una stazione di servizio e la trafficatissima autostrada di Santa Marta, Colombia.

Le donne più anziane siedono fuori, all’ombra delle loro case, per cercare rifugio dal calore insopportabile di un pomeriggio di inizio febbraio. Vicino a loro, galline, cani e gatti randagi si rincorrono noncuranti in mezzo alla strada: ci dobbiamo muovere a zig-zag per evitare di investirli. Dal sedile posteriore della motocicletta riesco a vedere tutto: le persone, i colori, la caotica fusione di natura e rifiuti, i pochi fiori che spuntano timidamente dalla terra arida. Quando mi giro e cerco con gli occhi i miei amici, che viaggiano sulle altre moto dietro di me, loro ricambiano il mio sorriso, altrettanto meravigliati. È come un sogno.

Quando ripenso ai due mesi che ho passato come volontaria presso “Colombia sin Fronteras”, ricordo sempre questa prima immagine del mio arrivo. Ero sorpresa quando mi sono vista scendere dalla “moto-taxi” — letteralmente, un servizio offerto da motociclisti per scortare i volontari alla scuola sulle loro grosse moto, molto comune in Colombia e che non avrei mai immaginato di utilizzare — per venire accolta da un gruppo di bambini euforici che morivano dalla voglia di conoscere i loro nuovi “profesores”.

Situata nel mezzo del quartiere povero di Gaira, parte del distretto caraibico del Magdalena, “Colombia sin Fronteras” offre uno spazio sicuro per bambini e ragazzi dai 5 ai 18 anni dove passare il tempo prima e dopo la scuola. Come organizzazione no-profit, promuove l’educazione e l’integrazione sociale dei suoi membri attraverso lezioni e attività culturali gestite sia da insegnanti locali che da volontari provenienti dall’estero. L’associazione fornisce inoltre un sostegno nutrizionale fondamentale per i bambini: non tutti, infatti, hanno la sicurezza di trovare un pasto completo quando tornano a casa, ma, a “Colombia sin Fronteras”, ognuno riceve una bibita e una merenda sia alla pausa del mattino che a quella del pomeriggio. Un piccolo sostegno che per molti diventa essenziale.

Insegnamento e divertimento

 Le classi erano divise per genere: io ero responsabile delle bambine, mentre i ragazzi si occupavano dei maschi. Il mio primo giorno ero nervosa: avevo dato lezioni di inglese a studenti adulti in passato, ma non avevo mai insegnato ai bambini, e, di certo, mai in spagnolo. Ma con l’aiuto gentile degli altri volontari, ho acquisito più sicurezza.

Le giornate erano organizzate in maniera regolare: la mattinata passava pianificando le lezioni da svolgere nel pomeriggio, le quali coprivano diverse materie tra cui la matematica e le scienze, lo spagnolo e la storia. Una parte della lezione era sempre dedicata a giochi di gruppo, letture o attività di disegno. Ma il momento che preferivo era la lezione di geografia, perché vedevo la curiosità dei bambini quando puntavamo il dito sulla mappa per mostrare da dove veniva ognuno di noi volontari: immaginare luoghi lontani, come la Svizzera o l’Australia, gli faceva sognare posti diversi e futuri possibili.

Certe volte, io e gli altri volontari ci radunavamo per dare lezioni di inglese a un gruppo di adolescenti e a uno di studenti universitari, alcuni dei quali erano riusciti a raggiungere l’educazione terziaria grazie all’aiuto economico e al sostegno educativo dell’organizzazione. Nonostante non avessimo molto materiale a nostra disposizione, tutti mostravano sempre moltissimo interesse e impegno: tutti desideravano imparare e costruire delle competenze per il loro futuro.

E poi c’era il calcio: ogni giornata scolastica doveva chiudersi con una partita sotto le ultime luci prima del tramonto. I bambini pregavano in coro la direttrice per il pallone da calcio mezzo sgonfio e poi ci prendevano la mano e correvano verso il campo, che altro non era che uno spiazzo di polvere e arbusti circondato dal filo spinato. Le reti delle porte ciondolavano nell’aria calda, attaccate all’asta da un lato solo e semidistrutte. Non c’erano linee di gioco su tutto il campo. La maggior parte dei bambini giocava in ciabatte, alcuni con una scarpa sola, altri scalzi: avevo sempre paura che pestassero il filo spinato. Ma non succedeva mai: tutti correvano entusiasti per il campo e ad ogni goal erano grida di trionfo, perché nessuno sapeva per quale squadra stesse giocando. Erano felici.

Dare per ricevere, ricevere per dare

Quando ripenso al tempo trascorso a “Colombia sin Fronteras”, penso di aver ricevuto molto più di quanto ho dato. Ho visto e scoperto la leggerezza della felicità nelle cose semplici, la familiarità nella differenza, e un senso di comunità e cura per l’altro che non avevo mai conosciuto prima. Staccarmi dalla vita di tutti i giorni e fare un passo dentro a una realtà diversa dalla mia mi ha aperto la mente; ricorderò sempre con affetto quest’esperienza unica e il modo in cui ha cambiato la mia visione del mondo. Riesco ancora a sentire nelle mie orecchie il suono dei bambini che giocano e della musica che dalle case intorno entrava sempre nella nostra aula. Suona sempre la musica a Gaira.

Laura Mattioli,

Tirocinante presso Volunteer in the World

 

 

 

Laura Mattioli: