Allarme depressione. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) il 6% della popolazione adulta riferisce sintomi depressivi che però sono più frequenti all’aumentare dell’età e tra chi vive in condizioni socio-economiche svantaggiate. Tra gli anziani la stima è del 9% ma arriva al 30% tra quelli con difficoltà economiche. La campagna Iss punta a sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere la consapevolezza riguardo alle questioni legate alla salute mentale. Vengono raccolte in continuo informazioni sulla popolazione adulta (18-69 anni) e anziana (over 65) circa molteplici aspetti come salute, qualità di vita e fattori di rischio comportamentali. Attraverso interviste telefoniche sono indagati molteplici aspetti relativi anche ai bisogni di cura e assistenza. Vengono classificate come persone con sintomi di depressione coloro che nelle due settimane precedenti l’intervista hanno sperimentato sintomi di umore depresso e/o di anedonia (perdita di interesse nelle attività della vita di tutti i giorni) in modo duraturo. “Avere sintomi depressivi è maggiormente frequente tra i gruppi più vulnerabili per condizioni di salute e tra chi riporta uno svantaggio socio-economico– rileva l’Iss-. Tra gli adulti, i sintomi depressivi arrivano all’8% fra le donne, all’11% tra le persone che hanno un basso livello di istruzione, al 17% tra chi riporta difficoltà economiche e al 9% tra chi vive una condizione precaria in ambito lavorativo. Tra le persone affette da patologia cronica la stima raggiunge il 12%. Tra gli over 65enni i sintomi depressivi raggiungono il 14% dopo gli 85 anni e il 19% tra chi riferisce due o più patologie croniche“. Una rilevante quota di persone con sintomi depressivi non chiede aiuto. 28% tra gli adulti e 38% tra gli anziani. E chi lo fa si rivolge soprattutto ai propri familiari o amici.
Sos depressione
Il professor Foad Aodi presiede l’Unione medica euromediterranea. L’Unem si occupa di comunicazione, ricerca, indagine e analisi statistiche sulla condizione fisico-psichica dei professionisti sanitari, nonché di tutela dei diritti degli stessi, in un dialogo costante con le istituzioni. Il nuovo studio realizzato dal professor Aodi, grazie anche al supporto dei colleghi dell’Umem sparsi per il mondo, e al lavoro proficuo del team di Radio Co-mai Internazionale, in oltre 120 paesi, ha analizzato solide fonti provenienti da numerosi nazioni. E ha riportato, in tal senso, che le dottoresse sono complessivamente la categoria sociale maggiormente a rischio di suicidio nel mondo. Con l’allarmante percentuale del 76% in più rispetto alle altre persone. Foad Aodi ha analizzato i risultati di 39 studi provenienti da 20 nazioni e ha monitorato i tassi di suicidio e il loro rapporto con varie professioni. Con il supporto dei ricercatori di Umem, è stato scoperto, come detto, che le dottoresse hanno molte più probabilità di suicidarsi (76%) rispetto agli altri membri della popolazione generale. Un’analisi dei dati ha rilevato che i medici uomini hanno un rischio più elevato di suicidio rispetto ad altri gruppi professionali con “stato socio-economico simile”.
Effetto Covid
L’epidemia di Covid ha esercitato ulteriore pressione sulla salute mentale dei medici. Ciò può esacerbare i fattori di rischio per il suicidio come la depressione e l’abuso di sostanze. Un operatore sanitario su 10 che esercita negli ospedali e pronto soccorso ha avuto pensieri di suicidio durante la pandemia. Le cause sono il costante rapporto con la morte negli ospedali, lo stress a cui si era sottoposti, la mancanza di presidi di sicurezza, Durante il coronavirus, nel mondo, il 10,8% dei lavoratori della sanità ha avuto pensieri suicidi, soprattutto nella fase più delicata, quella iniziale, mentre il 2,1% avrebbe effettivamente tentato il suicidio. L’11,3% dei lavoratori della sanità che ha riferito di aver avuto pensieri suicidi, ha riferito invece di averli sperimentati dopo un po’ di tempo. Il 55% dei professionisti sanitari nel mondo ha sottolineato di aver subito una forte pressione psicologica e di non aver ricevuto un sostegno sufficiente dalle proprie direzioni sanitarie.
Motivazioni
Cercando di individuare le principali motivazioni che potrebbero generare pensieri suicidi in un professionista sanitario, al primo posto, con il 28%, ci sono le aggressioni subite dai cittadini. Fomentate sia dalla scarsa sicurezza degli ospedali, sia dalla disorganizzazione dei sistemi sanitari. In Italia le violenze subite da medici e infermieri, toccano l’allarmante percentuale del 42%. Questo significa che il 42% dei professionisti è stato vittima di almeno un episodio di violenza. E ciò genera stress emotivo, ansia, paura, cicatrici e traumi spesso invisibili che conducono verso una pericolosa depressione. Al secondo posto, con il 24%, c’è la medicina difensiva, con le denunce contro i professionisti sanitari, spesso gonfiate ad arte, che generano mancanza di serenità, stati ansiogeni, timore di perdite di immagine. E questo conduce verso una possibile depressione. Laddove, poi, si devono pagare i danni di un processo ingiusto, aumenta in modo esponenziale il rischio di contraccolpi psicologici. Al terzo posto, con il 19%, tra le motivazioni, ci sono i turni massacranti, la disorganizzazione, le carenze delle strutture sanitarie, che generano un netto aumento della possibilità di depressione, soprattutto tra le donne della sanità. Cioè oloro che devono, al di fuori delle realtà ospedaliere, sostenere anche il peso della famiglia, come madri, mogli, talvolta dovendosi occupare di figli o parenti malati.
Fattori di rischio
In questo caso per i professionisti che si sentono letteralmente abbandonati a se stessi da istituzioni e direzioni sanitarie, aumenta il potenziale rischio di depressione, causato anche dalle scarse prospettive di carriera. Per quanto riguarda le aree dove si registra maggiore rischio di subire malattie depressive e ansiogene, per i possibili pensieri depressivi, al primo posto con il 19% ci sono i pronto soccorsi, con i reparti di emergenza-urgenza. E in particolare anche le aree di terapia intensiva e chirurgia d’urgenza, dove il professionista vive maggiormente il contatto con la morte dei pazienti. E dove occorre intervenire in modo repentino per salvare le vite umane, con aumento di dispendio di energie psico-fisiche. Al primo posto, tra le categorie di professionisti dell’area della dirigenza medica, maggiormente a rischio suicidio, ci sono i medici di famiglia, seguiti poi da pediatri e ginecologi. Ma a superare, nel rischio, tutte le categorie sanitarie ci sono gli infermieri, sottoposti a maggiori stress lavorativi a causa della cronica carenza di colleghi e agli organici ridotti all’osso. Con possibilità di carriera e remunerazioni inferiori a quelle della dirigenza medica. Oltre l’80% dei professionisti sanitari italiani ed europei aspirerebbe a maggiore attenzione da parte di governi e Regioni, nei confronti delle proprie condizioni psico fisiche. Chiedendo maggiore supporto all’interno dei medesimi luoghi di lavoro dove prestano servizio. Il 55% non denuncia la propria condizione di stress psicologico, spesso causando un peggioramento delle proprie condizioni. Con il timore di compromettere il proprio posto di lavoro.