Violenze, pestaggi, rapine. Per qualche anno è stata questa la vita di Daniel Zaccaro, cresciuto nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro, periferia Nord-Ovest della città. In famiglia il clima era teso: pochi soldi e continui litigi. Daniel cresce nei cortili delle case popolari, ama il calcio e in campo è il più forte, tanto che a dieci anni gioca con la maglia dell’Inter. Le aspettative su di lui sono altissime e non vuole deluderle. Ma quando, durante una partita, Daniel manca il gol decisivo, il sogno di diventare un calciatore famoso s’infrange per sempre. Alle medie Daniel diventa un bullo temuto da tutti, carico di rabbia e aggressività. Sente che l’unico modo per guadagnarsi il rispetto degli altri è incutere paura e non temere niente, neanche di fare un colpo in banca. E infatti lui le rapine arriva a farle per davvero, finché finisce prima al “Beccaria”, il carcere minorile, e poi a San Vittore, il carcere degli adulti. È considerato un ragazzo perduto, irrecuperabile.
Toccare il fondo per poi risalire in superficie
Dopo aver toccato il fondo, oggi Daniel è un educatore. L’ex bullo si è laureato in Scienze dell’Educazione e della Formazione e oggi lavora nella comunità Kayros fondata da don Claudio Burgio. Il giorno in cui conseguì la laurea, nel febbraio 2020, all’Università Cattolica di Milano, in aula c’era anche una ex pm del Tribunale dei minori, oggi in pensione. Il magistrato che più volte lo fece condannare. La donna pubblicamente elogiò l’impegno di Zaccaro: “Daniel racconta agli adolescenti come è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi. È una grande vittoria di tutti noi”. Con l’ex magistrato erano presenti in prima linea ad applaudirlo Fiorella, docente in pensione e volontaria a San Vittore, che aveva aiutato Daniel a riprendere gli studi, don Gino Rigoldi, cappellano del “Beccaria” e don Claudio Burgio.
Un esempio di rinascita
La storia di Daniel è diventata un esempio di rinascita, amicizia e amore della vita. E Andrea Franzoso, scrittore, bullizzato da ragazzino ed ex ufficiale dei Carabinieri, l’ha raccontata in un libro, Ero un bullo (Agostini editore). Alla presentazione del libro nella sede di Kayrós erano presenti anche il ministro della Giustizia Marta Cartabia, e il rapper Marracash, oltre ai ragazzi della comunità e a don Burgio. “Bisogna far sì che il tempo della pena e del carcere sia pieno di proposte” ha detto il ministro, congratulandosi con Zaccaro, mentre Marracash, che ha un passato simile a quello di Daniel, sottolineava: “Quando ero piccolo rifiutavo dei modelli più istituzionali per altri modelli che poi non rispecchiavano chi fossi per davvero”.
Daniel, cosa ricorda della sua adolescenza?
“Ho vissuto la mia infanzia in un quartiere difficile e come purtroppo è accaduto a molti giovani miei coetanei ero immerso in una cultura materiale assordante: soldi, successo, immagine, potere. Non avevo altre prospettive. Per sentirmi all’altezza della situazione, fin da giovanissimo ho cominciato a commettere reati. Ho iniziato alle medie a tirar fuori il mio lato negativo, ma i problemi più seri sono iniziati alle superiori, quando ho portato in dote la violenza assorbita nelle strade del quartiere. Prevaricavo sui miei compagni, a scuola dovevo dimostrare di essere un vero duro. Ho iniziato a rubare le biciclette, qualche motorino e poi rapinavo gli studenti degli altri istituti. A volte saltavo la scuola e mi presentavo davanti alle scuole frequentate da ragazzi di famiglie benestanti e li aspettavo, con un complice, per rapinarli del cellulare e del portafoglio, anche se senza armi”.
A che età ha fatto il salto verso il crimine a mano armata?
“A 17 anni. Ho iniziato a far rapine in banca con il taglierino. Mai però nel mio quartiere: è una delle regole da rispettare. Finché a marzo 2010, due giorni prima di compiere 18 anni, sono stato arrestato e rinchiuso nel carcere minorile “Beccaria”. Con l’arresto pensavo di aver raggiunto una certa notorietà nel quartiere, perché tutti avrebbero parlato di me. Ho capito solo nel tempo, invece, che era l’inizio di un lungo viaggio, molto doloroso”.
Perché ha deciso di raccontare la sua storia in un libro?
“Ne avevo bisogno io, in primis. Mi ha fatto bene. E poi perché penso sia utile per tanti ragazzi che in questo momento stanno vivendo quello che io ho passato. Possono riconoscersi nella mia storia, entrarci in sintonia. Il libro è per loro e allo stesso tempo per tutti gli adulti che hanno un mestiere educativo, sono i primi chiamati a interrogarsi”.
Il libro è stato scritto da Andrea Franzoso, bullizzato da ragazzino ed ex carabiniere. Lei è un ex bullo. Come siete riusciti a entrare in sintonia?
“Queste sono etichette sociali che creano solo differenze. Andrea prima di tutto è una persona ambiziosa, curiosa e intelligente. Le stesse caratteristiche in cui mi ritrovo anch’io e che ci hanno permesso di incontrarci a livello primo di tutto umano”.
Cosa si prova a essere detenuto, privato della propria libertà?
“Dentro il carcere ho portato avanti l’immagine da duro: rifiutavo l’autorità, mostravo insofferenza per le regole e le persone di altre etnie. Ricordo i primi giorni con due ragazzi rom: un vero incubo, non riuscivo ad accettare di dover condividere la cella con loro. La letteratura racconta il carcere come “cimitero dei vivi”. Ed è vero. Ti senti perso, trattato come un numero e lontano dalla vita. Ma è anche il luogo che mi ha permesso di entrare in relazione con la parte più profonda e sommersa di me”.
Chi le è stato vicino negli anni più bui?
“Prima di tutto, la mia famiglia. Ho sempre avuto un bellissimo rapporto con i miei genitori, mi sono sempre stati vicini. Anche se ero ingestibile e violento, incattivito da un ambiente carcerario che percepivo solo come luogo punitivo. E poi sicuramente la mia psicologa, don Claudio Burgio e Daniele Serriconi, un educatore con una vita simile alla mia. Ma soprattutto ho la fortuna di avere tanti amici veri. Mi sono sentito solo per scelta, non abbandonato. Fin dai primi giorni al “Beccaria” ho conosciuto don Claudio Burgio, uno dei due cappellani (l’altro è don Rigoldi. n.d.r.). Con lui riuscivo a parlare e a farmi ascoltare. Non ero abituato a fidarmi degli adulti, se non quelli del mio quartiere. È per questo che dopo un anno di carcere chiesi al giudice di andare a vivere nella sua comunità di accoglienza, Kayros. Lì mi sono sentito a casa, accolto con simpatia e fiducia. Don Claudio non mi ha imposto mai nulla, lasciava a me le decisioni da prendere dicendomi che ero grande e che dovevo decidere con la mia testa”.
Dopo l’esperienza con don Claudio è tornato a casa e poco dopo è finito a San Vittore. Perché?
“Tornato a casa, a Quarto Oggiaro, pensavo di essere cambiato. Ma ho resistito solo sei mesi, poi ho tentato una rapina ed essendo recidivo e maggiorenne sono finito a San Vittore, il carcere degli adulti di Milano, toccando il fondo. In carcere ebbi la fortuna di conoscere Fiorella, docente in pensione e volontaria, che fece nascere in me il desiderio di riprendere gli studi. Così dopo uscito dal carcere sono riuscito a ottenere il diploma e a diventare OSS, operatore socio-sanitario. E da due anni sono anche laureato”.
Quando e come è avvenuta la svolta che ha trasformato la sua rabbia in qualcosa di positivo, cambiandole la vita?
“Non c’è stato un momento preciso. La svolta si è creata nei luoghi dell’incontro, con adulti credibili e affidabili che non hanno avuto paura di mettersi in gioco. Da lì, ho cominciato a mettermi in gioco anch’io. È stato un circolo virtuoso: ho capito che non venivo punito per la mia rabbia, ma dalla mia rabbia”.
Ogni tanto ripensa al suo passato?
“Certo, ma questo non mi disturba. Ho fatto pace con il mio passato».
Si sente ancora con la l’ex pm del Tribunale dei minori che la condannò, ma che era presente, congratulandosi con lei, il giorno della laurea?
“Ci scambiamo qualche messaggio spesso e volentieri. I suoi consigli e le sue riflessioni sono sempre preziosissimi per me”.
Perché ha scelto di laurearsi in Scienze dell’Educazione e della Formazione?
“Sentivo che sarebbe stato un percorso ulteriore di crescita personale. Le relazioni sono ciò che abbiamo di più importante della vita e io volevo trasformare la mia esperienza di vita in un lavoro”.
Cosa le ha detto il ministro della Giustizia Cartabia alla presentazione del libro?
“Mi ha fatto i complimenti e poi abbiamo scambiato due chiacchiere su questioni personali. È davvero in gamba. Nonostante incarni l’autorità ti mette subito a tuo agio, in modo semplice e autentico”.
Marracash ha alle spalle un percorso simile al suo: ex bullo, arrestato per furto e spaccio. Cosa vi siete detti quel giorno?
“Sinceramente ero abbastanza emozionato nel vederlo. È il mio cantante preferito. Non sono riuscito a dirgli molto perché ero sorpreso di vederlo e contento fosse lì, in comunità, per il mio libro. La sua presenza, lo ammetto, mi ha spiazzato”.
Cosa si sente di dire ai ragazzi che vivono di violenza e bullismo?
“Di cercare e trovare un ideale che possa liberarli da tutti i loro disagi e problemi, perché è attraverso quello in cui crediamo che inizia il cambiamento. L’errore sta nel credere che vivere con aggressività e prepotenza possa essere l’unico modo. Ma in realtà il vero lavoro bisogna farlo con gli adulti poiché i ragazzi sono il risultato dell’educazione che ricevono. I bulli non sono in grado di comunicare in altro modo. C’è una bellissima frase di Abraham Lincoln che dice: ‘Quando mi comporto bene, mi sento bene. Quando mi comporto male, mi sento male. Questa è la mia religione’. È una frase che ripeto spesso agli studenti che incontro nelle scuole, dopo aver raccontato la mia esperienza. Li invito a non ripetere i miei stessi errori, perché è possibile crearsi un futuro in un modo onesto”.
Pubblicato sul settimanale Visto di marzo