Della città che fu resta solo un’ombra. Eppure Mosul è solo una delle tante realtà irachene dilaniate dagli anni di occupazione jihadista. L’avanzata di Daesh ha cercato di cancellarne la memoria, di violentarne la cultura, rendere sterile un territorio forgiato da secoli di storia. Non è solo una città Mosul ma è l’emblema del governatorato ferito di Ninawa, quella che in Occidente chiamiamo Ninive. Una piana disseminata di città e villaggi, marchiati dalle privazioni dell’invasione dell’Isis, liberate da una controffensiva che non ha risolto il dramma degli esodati, né quello di chi, da fuggitivo, sperava di ritornare un giorno nella propria terra. A Qayyarah magari, villaggio meridionale del governatorato, dove la tenaglia dell’Isis ha stretto con più violenza. La maggior parte di loro, però, vive ancora la propria tragedia quotidiana fra i rifugi di fortuna di Hammam Al Alil (9.369 persone al giugno, fra le quali 252 disabili, 518 in complesse condizioni mediche, 202 bambini in difficoltà, 546 donne vittime di violenze, abusate o vedove) e degli altri campi profughi, dai quali il sogno del ritorno a casa si scontra con una realtà fatta di paura e velenose scorie di anni di invasione jihadista.
L’approccio umanitario
Alessandra Sacchetti, Mental Health & Care Practices Programme Manager di Azione contro la Fame, quella realtà non l’ha solo vista, ma anche vissuta. Occhi negli occhi con i civili del distretto di Mosul: “Sono specializzata in traumi di emergenze. Lavoro in ambito umanitario in zone di crisi: guerre, disastri naturali… In Ira mi occupo dell’implementazione dei progetti che sono attivi nel distretto di Mosul”. Un’area che ha sofferto e che soffre ancora, dove le ultime analisi svolte hanno riscontrato urgenze di carattere psicologico e di accesso ai beni primari su praticamente ogni fascia della popolazione: “I bisogni umanitari sono risultati l’impossibilità di accedere ai servizi di educazione e, per un 58%, il riscontro dei postumi psicologici legati ai traumi subiti”. Un quadro di difficoltà generale, in cui all’intervento di tipo umanitario è necessario affiancare sostegni che vanno ben al di là dell’operato ordinario: “L’approccio umanitario è un modello non solo sull’emergenza in senso stretto ma anche in un’ottica di sviluppo e di lavoro su quelle che sono le cause primarie. Tra queste c’è la salute mentale, in particolare delle donne: noi ci occupiamo molto di quelle incinte o in fase di allattamento”.
Donne e bambini
Un’assistenza strettamente connessa al tema della malnutrizione, fattore derivato dalla situazione di emergenza ma anche, in qualche modo, causa che determina la difficile ripresa della popolazione di Hammam Al Alil e delle altre ad alto livello di criticità dell’Iraq nord-occidentale: “La malnutrizione infantile si basa sulla capacità della madre di nutrire il bambino: in un contesto di emergenza, molte donne non sono in grado di occuparsi in modo adeguato della nutrizione dei figli, specie in una fase di allattamento. Ci sono una serie di fattori, come anche le violenze di genere, stress e traumi che possono non renderle più in grado di allattare… E il tema della salute mentale interviene molto su questo aspetto”.
Un lavoro integrato
Non solo cause. Sono gli effetti delle privazioni subite a essere ancora bene visibili in queste comunità, inserite in contesti di difficoltà ordinarie e, in molti casi, di veri e propri casi di sconforto: “Se arriva cibo ma non sai come distribuirlo, se hai situazioni familiari che non ti permettono di prenderti cura del tuo bambino… questi sono fattori che influiscono sulla malnutrizione. Noi interveniamo con due di attività parallele: il rapporto madre-bambino, anche in relazione alla situazione psico-sociale della mamma e della sua famiglia, e salute mentale. Se la donna è stata vittima di traumi o violenze diventa necessario lavorare in questo senso. Con il Covid tutto questo è stato compromesso: ci troviamo in una situazione in cui non abbiamo beni primari. Quello di Acf è un lavoro molto integrato su una popolazione che non ha di nuovo accesso a questi beni e, al contempo, sostegno psicologico. Chi è vulnerabile da un punto di vista mentale è difficile che possa essere soggetto a un’integrazione lineare”. L’obiettivo, in questo senso, è “aiutare il sistema sanitario iracheno a fornire questo sostegno laddove non c’è, per far sì che i centri di salute siano in grado di rispondere alle emergenze“.
Il difficile ritorno
Fase emergenziale, poi un sistema di intervento “che va alle radici, per far sì che la popolazione diventi in grado di sostenersi da sola”. Una mission che gli operatori umanitari svolgono con lo scopo ultimo di fornire a queste comunità gli strumenti necessari per un sostentamento autonomo, consapevoli delle difficoltà in un territorio che, dalla fase di occupazione, ha ricevuto ferite ben più profonde di quanto si pensi: “Ci relazioniamo con due ministeri, quello del Federal Iraq e Kurdistan. Ninuwa è un governatorato. Mosul è il capoluogo e abbiamo ricevuto una richiesta diretta dagli amministratori: chiedevano aiuto per gli operatori sanitari che lavorarono negli ospedali e di supportarli dal punto di vista della salute mentale. Le istituzioni hanno chiesto aiuto”. E il lavoro è tutt’altro che semplice, considerando la problematica effettiva di svuotare i campi profughi di Ninuwa e le scorie psicologiche lasciate dal recente passato: “Eravamo in una fase di reintegrazione. La difficoltà di svuotare i campi è oggettiva. Il governo aveva attivato un piano per chiuderli ma è stato posticipato più volte. Al momento c’è un’impossibilità oggettiva a tornare nei luoghi di origine, soprattutto per mancanza di infrastrutture e servizi primari. Per questo enti come Unhcr cercano di garantire che gli eventuali processi di reinserimento avvengano nel rispetto dei diritti umani”. Ma esistono anche altre problematiche, figlie dirette di un passato recente fatto di violenza, paura e minaccia costante: “Per alcuni nuclei familiari riconducibili a membri che sono stati coinvolti nell’occupazione Isis, c’è un’impossibilità a rientrare nei propri luoghi d’origine, in quanto vittime di un rifiuto sociale da parte delle comunità di appartenenza, in virtù di una presente o presunta affiliazione“. Un dramma nel dramma, laddove si cerca di agire per attivare “una dinamica trasformativa in positivo, che del resto è alla base del nostro lavoro. All’accoglienza del dolore, deve corrispondere la creazione di condizioni di positività, fatta di relazione profonde e in grado di imprimere davvero lo slancio per una rinascita”.
Una nuova minaccia
Va da sé che nel Distretto di Mosul il Covid-19 abbia rappresentato un fardello ulteriore in un contesto sociale già fortemente compromesso: “I livelli di emergenza vengono dati fra 2 e 3 ma noi consideriamo un livello 4. L’impatto del Covid ha due questioni principali: c’è stato un improvviso picco di bisogni che mesi di lavoro avevano fatto sì che fossero in qualche modo gestiti. C’è inoltre un risvolto psicologico preoccupante legato a una popolazione traumatizzata, sconvolta da una nuova minaccia di morte. A quanti avevano ricominciato a far fronte alla vita, una nuova minaccia mette di nuovo in crisi quelle strategie che si era imparato a mettere in atto. Abbiamo tanti suicidi tentati, forti stati depressivi e ansiosi”. E, nel novero delle misure contenitive imposte, si riscontra “l’impossibilità della comunità umanitaria di muoversi. E una popolazione che si affida molto alle risposte umanitarie può andare in crisi per questo”. Misure di emergenza sono state adottate, niente si è bloccato del tutto ma il contatto diretto con chi vede nel supporto umanitario lo strumento essenziale per ricominciare a costruire il proprio futuro risulta essenziale. A Mosul, Qayyarah e in tutte quelle città che ancora tentano di avere per sé stesse un nuovo inizio.