Da migrante a imprenditrice innovativa. I ponti e le start up di Anita Likmeta

Logo Interris - Istituto Einaudi: al via il progetto "Percorso Start Up"

Logo INTERRIS in sostituzione per l'articolo: Istituto Einaudi: al via il progetto "Percorso Start Up"

Quando si parla di flussi migratori viene spontaneo pensare ai lavori più umili. Quelli, secondo un’espressione d’uso comune, che “gli italiani non vogliono più fare”. Non è sempre così. Come dimostra la storia della 34enne Anita Likmeta. Una migrante sbarcata dall’Albania e diventata imprenditrice con una propria start up.

Inclusione di una migrante

“L’Italia è la mia patria adottiva. Sono italiana. Sono cresciuta qui. E’ la mia casa. Sono albanese perché sono nata lì. Ma sono anche italiana. Sono ‘ibrida’. E soprattutto l’Italia mi ha accolta“, racconta Anita Likmeta. In questi giorni viene commemorato il 30° anniversario dell’arrivo degli albanesi in Italia. La ricorrenza è stata celebrata anche dal premier albanese Edi Rama, presente a Bari e Brindisi. Quella di Anita Likmeta è una storia di inclusione. Oggi vive a Milano. E’ imprenditrice nel ramo digital attraverso le start up.

Ricongiungimento

Il suo lavoro, spiega Anita Likmeta all’Agi, le regala soddisfazioni. Ma la sua storia 30 anni fa “è cominciata male. Con un brutto segno. Poi per fortuna scomparso. Spiega la giovane migrante: “Il mio è un percorso un po’ particolare. Mia madre, Ela, è arrivata nel 1991 a Bari. Con lo sbarco della Vlora. Con lei, mio fratello e mia sorella. Che erano piccoli, rispettivamente di 9 mesi e di 3 anni. Io sono invece rimasta in Albania. E ho fatto il ricongiungimento familiare nel 1997“.

Viaggio

Prosegue Anita Likmeta: “Avevo 5 anni e mia zia, tornando dal liceo, mi disse che mamma e i miei erano morti. Per un paio di mesi fu traumatico. Fu una notizia bomba per me piccolina. Piano piano la accetti purtroppo per quella che è. E non puoi cambiarla. Mi faceva strano l’idea della morte. Molti albanesi sono morti in quel viaggio della Vlora”. Aggiunge Anita Likmeta, “si parla spesso di chi è arrivato ed ha concluso la corsa. Ma non si parla di chi quella corsa non l’ha conclusa. E ha trovato la morte sull’Adriatico. Ecco, io ho vissuto per due mesi sapendo che non avrei mai più rivisto i miei. Poi gli stessi zii mi dissero che mamma, mio fratello e mia sorella, erano vivi. Non ci credevo quasi“.  Gli anni dal ’91 al ’97 vissuti in Albania senza i genitori non sono stati semplici.

Tensione

“C’era una situazione molto tesa. Quasi come fosse l’ultimo giorno prima del diluvio. Hai la sensazione che stia arrivando una grande pioggia. Poi è scoppiata la guerra civile. In quei giorni  chiedevo a mio nonno: ‘Ma dove vanno tutti questi?‘ E lui mi diceva: ‘Vanno a reincontrare la loro povertà’. Per lui, scappare non aveva senso. Perché anche la povertà aveva una sua dignità.  In realtà “l’Albania era un Paese con l’economia a terra. Le piramidi finanziarie erano crollate. E la gente doveva rifarsi una vita. Piramidi finanziarie costruite ‘ad hoc’. E un giorno bisognerà fare chiarezza anche su questo. Sulla politica di allora che le permise. Accadeva che vendevi la tua casa e ti davano somme incredibili. Con la gente che pensava che il liberismo economico fosse quello”. sottolinea Anita Likmeta.

In traghetto

“Io sono arrivata a Bari con un traghetto da viaggiatrice regolare– spiega la migrante divenuta imprenditrice-. Da Bari sono poi salita a Pescara. Dove mamma aveva trovato lavoro come sarta. I miei stavano benissimo. Mio fratello e mia sorella erano cresciuti in Italia. Rispetto a me avevano avuto una vita da ‘Mulino Bianco’. Eravamo in un paese, Villanova. Poi ci trasferimmo a Cepagatti. Quindi a Pescara. Dove mia madre apri la sua attività come imprenditrice nella sartoria“.

Digital

“Faccio l’imprenditrice grazie a mia madre– evidenzia Anita Likmeta-. Oggi vivo a Milano. E lavoro nell’ambito digital. Ho delle partecipazioni in varie start up. Mentre mia madre vive in Spagna. Con il suo compagno. E sta cercando di riaprire la sua attività. Che ha chiuso dopo la grande crisi. Mi sono buttata anche io in ambito sartoriale. Dopo la laurea in filosofia alla Sapienza, mi sono messa a studiare in ambito tech. Mi interessava molto il digital. Sono diventata ambasciatrice delle Nazioni Unite. Per un progetto che si chiama ‘Connect Albania’”.

Diaspora

“Il progetto è innovatore- precisa Anita Likmeta-. Utilizza la diaspora albanese per incentivare gli imprenditori. Non solo albanesi. Ma anche italiani. E far crescere Paese. Con ‘Connect Albania’ abbiamo iniziato quest’anno con vari incontri. Anche se tutti on line. Oltre a ‘Connect Albania’, sono in una start up che si occupa di smart working. E ha sede in Sicilia. Col crowdfunding abbiamo chiuso una raccolta per investimenti di 250 mila euro. Poi sono in un’altra start up. Che sta a Catania e Milano. E si occupa di marketing. Sta andando molto bene. Le due start up  si chiamano ‘Coderblock’ e ‘Creation Dose‘”.

Ponti

“Il lavoro che faccio mi piace moltissimo– puntualizza la migrante divenuta startupper -. Mi piace creare cose che non esistono. Ponti. Opportunità. Dall’Albania manco da tanto. Non ho più rapporti. Ci sono tornata solo due volte in questi anni. Ma l’Albania è un Paese che sta crescendo. E ha voglia di cambiare. Facendo i conti anche con se stesso. Pu essendo difficile. L’Albania ha una gioventù che vuole riscattarsi. Ed è un Paese che merita attenzione. Ci tengo tanto. Tengo tanto al progetto ‘Connect Albania’. Si muove nel solco dei rapporti tra Italia e Albania. Vi partecipano anche alcuni ministeri italiani. Cerco di rafforzare questo ambito. E di contribuire ad una prospettiva nuova“.

Creatività

Allo stesso tempo Anita Likmeta si augura che “non si dimentichi la tragedia del popolo albanese“. Che è “quella di tutti i popoli migranti. In fuga dalla propria terra verso una direzione. Senza sapere bene quale possa essere. Oggi l’Albania è come l’Italia degli anni 60. C’è voglia ricostruire un profilo identitario e commerciale”.

Lampedusa

Conclude la startupper: “A ben vedere l’Italia con l’Albania ha conosciuto la prima ondata migratoria. Lampedusa è arrivata dopo. E mi ricordo bene cosa si diceva degli albanesi in quegli anni. Brutta gente. Persone da cui stare alla larga. Allargo lo sguardo sull’immigrazione oggi. Penso che nigeriani o ghanesi possano essere un’opportunità. Le persone sono una risorsa. Sono in grado di creare. A patto che incontrino sulla loro strada interlocutori culturali Capaci di comprenderli”.

Giacomo Galeazzi: