Ricostruire la propria vita un piatto alla volta. L’integrazione e l’inclusione di chi è stato costretto a migrare si concretizzano in tante differenti modalità. Da Gustamundo lo fanno con i colori, gli odori e i sapori dei piatti della cucina tradizionale di quei Paesi che si sono lasciati alle spalle. Pietanze preparate con due ingredienti speciali, l’accoglienza e la speranza per il futuro.
L’inizio
In principio, l’idea era di ampliare la proposta del ristorante messicano El Pueblo a Roma, trasformata poi in un progetto di integrazione socio-economica di persone migranti, rifugiati e richiedenti asilo attraverso la gastronomia etnica, che dalle cucine del locale si è allargato al laboratorio di pasticceria. “Ho aperto El Pueblo trent’anni fa e nel 2017 ho deciso di ampliarlo riservando una saletta alle cucine etniche con eventi una tantum, così mi sono rivolto ai centri di accoglienza per entrare in contatto con chi, tra le persone migranti, avesse già fatto il cuoco nel Paese di provenienza”, racconta a Interris.it la mente dell’iniziativa Pasquale Compagnone, ristoratore e fondatore dell’associazione In cammino con Gustamundo. Dalla collaborazione con i centri di accoglienza straordinaria (Cas) e con la rete degli enti del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) di Roma, così come con altre realtà quali Croce rossa italiana, Comunità di Sant’Egidio e Humilitas Onlus, sono stati coinvolti nel progetto circa sessanta tra cuochi e cuoche, provenienti principalmente dall’Africa, Senegal, Mauritania, Mali, Costa d’Avorio e Guinea, e dal Medio Oriente, Siria, Afghanistan, Iran e Iraq. “Qualcuno nel frattempo ha trovato un impiego altrove e oggi il nostro gruppo è formato da 15-18 persone che hanno delle affinità e vanno d’accordo fra loro. Il lavoro è il denominatore comune e il progetto è il collante”, prosegue Compagnone.
Cene e conoscenza
Il primo esperimento del progetto consisteva nell’incontro tra gli avventori del ristorante e i cuochi che, oltre a illustrare i piatti che avevano preparato, raccontavano la propria storia. “Dopo un anno abbiamo cominciato a gettare le basi per un ristorante multietnico, organizzando “Ogni cena una storia” cene per consentire la conoscenza diretta tra i clienti e i migranti” – racconta il fondatore – “presentavano i loro piatti e a fine pasto raccontavano le loro storie, fraternizzando”. Il passo successivo è stato quello di avviare il ristorante Gustamundo come un’attività vera e propria, aperta a cena tutte le sere, con un menù alla carta e un personale selezionato di qualità medio-alta. In seguito al lockdown, El Pueblo e Gustamundo si sono uniti in un singolo locale e due mesi fa ne è stato inaugurato uno nuovo. Inoltre offre anche il servizio In cammino-Catering migrante. “I piatti ‘forti’ del nostro menù sono quelli di carne, come lo zighinì, eritreo ed etiope, oltre ai falafel e all’hummus”, aggiunge.
I dolci
Non di solo salato si ciba l’uomo, ma anche di dolce. Un anno fa è partita la pasticceria multietnica, un’occasione d’imprenditorialità che segue il laboratorio di pasticceria sostenuto da Unhcr e Intersos a cui hanno partecipato 12 donne migranti, iniziativa rivolta non solo agli avventori ma anche alle altre attività del settore. Tra le iniziative di Compagnone, inoltre, c’è stata la costituzione, due anni fa, dell’associazione che si occupa di “organizzare corsi Hccp per gli operatori del settore alimentare in arabo, francese, italiano e inglese per far conoscere ai migranti di prima accoglienza i requisiti obbligatori per lavorare nei ristoranti”, spiega Compagnone, “e di pratiche per il ricongiungimento familiare”.
La trasformazione
Una di queste riguarda la famiglia di Ilyas Mohammad, nel progetto Gustamundo fin dall’inizio. “Il nostro cuoco Ilyas è arrivato in Italia dal Kahsmir, in Pakistan, dieci anni fa. Lì gestiva un ristorante con sua moglie, ma dopo aver perso entrambi ha lasciato il Paese mentre i suoi figli sono rimasti. Quando l’ho conosciuto era triste e depresso”, racconta il gestore del ristorante. “Lo abbiamo aiutato con il lavoro e con le pratiche per riunire la sua famiglia e adesso dopo dieci anni rivede i suoi figli. Ho assistito alla trasformazione di un uomo che non aveva nulla e ha ricostruito la sua vita. Lui mi considera un fratello”, conclude Compagnone.