“È il nostro disprezzo per la natura e la nostra mancanza di rispetto per gli animali con cui dovremmo condividere il pianeta che ha causato questa pandemia”. Non ha usato mezzi termini la primatologa Jane Goodall, fra le più eminenti naturaliste e protagonista di una ricerca quarantennale sulla vita sociale degli scimpanzé. Parole che hanno, per l’ennesima volta, richiamato all’attenzione sull’azione dell’uomo nei biomi terrestri, sulla sua influenza nella mutazione dei paesaggi, sull’incidenza che il proprio operato può esercitare sugli ambienti naturali e, di conseguenza, sulla vita sociale delle altre specie. Forse non c’era bisogno della scudisciata del coronavirus per arrivare a comprendere quanto l’uomo abbia anteposto la sua tendenza antropocenica alla salvaguardia degli ambienti essenziali al prosieguo della vita sulla Terra. Eppure, in qualche modo, la pandemia in atto offre qualche spunto di riflessione in più, portato magari durante i mesi di lockdown e con la speranza che l’arrivo della Fase 3 non faccia perdere troppo in fretta la memoria su quanto è stato discusso in merito alla salute del nostro Pianeta.
Video © Jane Goodall Institute
Un rischio molteplice
Si è parlato anche dei primati. Della loro somiglianza biologica con l’uomo e del rischio, potenziale, che la pandemia si diffondesse anche fra le comunità protette nel cuore dell’Africa. Uno scenario che apre uno spaccato importante non solo sullo stato dei santuari dei primati, quelli in cui il Jane Goodall Institute continua a operare, ma anche sugli effetti di un processo di espansione capillare che ha esasperato i rischi per le specie che li abitano: “Ci sono situazioni di due tipi da tener presente – ha spiegato a Interris.it Daniela De Donno, biologa del Jane Goodall Institute Italia -: a Gombe ad esempio, in Tanzania, c’è stata una chiusura per un periodo del parco ai turisti, dilazionando poi la possibilità di ingresso dopo la riapertura. E sono state adottate misure di prevenzione come mascherine e sanificazione di base. Al tempo stesso, però, attività come quelle di ricerca sono state completamente sospese. Il rischio è che, riducendo il numero di personale, ci sia una maggior apertura al bracconaggio, non tanto nel parco di Gombe, ma in aree più grandi. Un pattugliamento almeno esterno è necessario”.
Equilibri fragili
Del resto, il rischio di diffusione di un virus fra primati a rischio come gli Scimpanzé del Gombe, potrebbe comportare effetti catastrofici: “E’ un discorso chiave. La nostra somiglianza biologica è tale che, allo stesso modo in cui noi possiamo prendere qualcosa da loro, loro possono prenderla da noi. E’ già accaduto. Per tutte le grandi antropomorfe, delle quali i numeri sono ormai minimi, una pandemia potrebbe portare alla catastrofe, parliamo di possibilità di estinzione”. Il punto, ancora una volta, è fare i conti con uno sviluppo progressivo che non ha tenuto conto della sopravvivenza di specie e ambienti, necessaria a mantenere l’equilibrio degli ecosistemi. E, di riflesso, la salute del nostro Pianeta: “Si combatte per cercare di ricostruire gli habitat di queste specie, di ricrearli sperando che i numeri delle comunità risalgano, eppure questo non sta accadendo. In passato era stato riscontrato un buon trend per i gorilla, in seguito alla cessazione di alcuni conflitti etnici nella zona dei Virunga ma si tratta di equilibri delicati. Anche degli stessi scimpanzé non ne rimangono più di 300 mila”.
Una potenziale catastrofe
Riduzione degli habitat e pandemia non sono discorsi opposti fra loro, quanto due fili intrecciati nello stesso tragico nodo: l’arretramento degli spazi primordiali coincide con una conseguente venuta in contatto delle diverse specie animali. La combinazione perfetta per la diffusione di una malattia: “Per ora non ci risultano casi di Covid-19 fra i primati ma, dovessero verificarsi, non sappiamo quale potrebbe essere la conseguenza. Dobbiamo assolutamente mantenere il più possibile le misure per far sì che questo non accada. E anche questo comporta dei rischi, come quello di mostrare il fianco al bracconaggio. E’ un gatto che si morde la coda: situazioni create dall’uomo che ritornano come boomerang, da un lato sulle altre specie, dall’altro su noi stessi che, per tutelarle, dovremo mettere sul piatto misure prima di tutto economiche che si avrebbe difficoltà a reperire”.
Contro il bracconaggio
E’ stato pionieristico il lavoro di Jane Goodall e, tuttora, l’opera dei ricercatori dell’Istituto che porta il suo nome garantisce alle ultime comunità di grandi primati di sopravvivere in un ambiente in cui la lotta per il mantenimento degli equilibri è quotidiana: “Per quanto riguarda i nostri santuari – ha spiegato ancora la dottoressa De Donno – ci sono problematiche di diverso tipo. Ci sono più costi per sanificazione e per tutto quello che comporta aumentare il livello di igiene e di distanze. Nel nostro centro in Congo ci sono 150 scimpanzé, tutti confiscati al bracconaggio, che hanno bisogno di una vicinanza costante, soprattutto quelli arrivati recentemente. Aumentando le misure di sicurezza si riduce il volontariato e, ad esempio per il santuario del Sudafrica, particolarmente aperto alle visite e che vive dell’apporto di gente sensibile, c’è un grandissimo rischio economico, legato a problematiche di mantenimento per i centri che accolgono gli scimpanzé dopo la confisca”.
Coscienza collettiva
Ancora una volta, è questione di equilibri. Fragili, compromessi in alcuni casi, di certo una sfida costante per chi ha dedicato la propria vita e il proprio lavoro alla tutela delle specie a rischio: “Occuparsi degli scimpanzé comporta un lavoro enorme. Quando ad esempio i piccoli vengono strappati alla natura, e poi vengono affidati ai nostri centri, l’uomo fa da sostituto materno. Una pandemia può verificarsi fra queste comunità e, in caso, è bene ricordarsi che si parla di specie a rischio di estinzione. E dobbiamo sempre ricordare che questo virus nasce da un eccesso di invasione, da parte dell’uomo, del territorio degli altri animali”. Quel che serve è una coscienza collettiva, in grado di ponderare i rischi e adottare quelle misure di prevenzione necessarie a scongiurare il rischio di dover sacrificare la conservazione di specie e biomi come scotto di uno sviluppo incontrollato. Una sconfitta innanzitutto per noi stessi.