Mentre continuano a crescere i casi di coronavirus in Italia, viene da chiedersi cosa si stia facendo per tutelare alcune delle fasce più deboli della società come i cittadini Rom. Lo slogan “restate a casa” sembra quasi una burla per chi una casa non ce l’ha. Per capire come è la situazione nei campi Rom e approfondire la conoscenza di questo popolo, ma anche per sfatare alcuni miti, In Terris ha intervistato Natascia Mazzon, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, responsabile generale dell’ambito condivisione con Rom e Sinti.
L’emergenza sanitaria causata dal coronavirus, come viene affrontata nei campi rom?
“Sfortunatamente non ho notizie precise, perché non potendo uscire di casa, non posso verificare quello che accade realmente. Paradossalmente, la situazione più grave non è rappresentata dai campi rom – si trovano in un periodo di chiusura antecedente allo scoppio dell’epidemia – ma da quei fratelli rom ‘dispersi’ che non sono inseriti in un percorso di inclusione. Sono tutte persone che potenzialmente possono contrarre – o sono stati già contagiati – il coronavirus, ma purtroppo non abbiamo stime. Il popolo Rom, culturalmente, ha molto paura delle malattie, per questo all’interno dei campi stanno chiusi nelle loro ‘case’, rispettano discretamente le norme”.
Ci spieghi chi sono i Rom?
“Fa parte del popolo Rom chi si individua in questo nome; chi si riconosce nel Romanès, la lingua di tradizione prevalentemente orale che deriva dal sanscrito; chi si identifica in un’unica bandiera, che deriva dalla bandiera indiana (campo azzurro che rappresenta il cielo; campo verde che rappresenta l’erba e la ruota del carro rossa mutuata dalla bandiera indiana); chi si unisce nel cantare l’inno nazionale ‘Gelem gelem’. Non è ancora riconosciuto di diritto come una minoranza etnica perché non ha un territorio nazionale. A causa delle diaspore, i Rom sono un popolo senza terra”.
Quanti sono in Italia?
“In Italia vivono 180 mila rom, 26mila circa risiedono nei campi sosta, detti anche campi nomadi; tutti gli altri vivono nelle case. Dei 26 mila che vivono nei campi nomadi, solo 9mila circa non hanno documenti regolari. Quanti vivono nei campi spesso sono vittime della segregazione e dell’esclusione sociale e possono talvolta cadere nel degrado che ne è conseguenza”.
Tu sei membro dell’Apg23 e da circa 13 anni ti occupi del popolo Rom. In cosa consiste il tuo servizio?
“Ho iniziato a condividere con i rom 13 anni fa, da tre anni sono animatrice dell’ambito generale per la Comunità Papa Giovanni XXIII. Il mio servizio è composto da vari aspetti, il primo è la chiamata a far innamorare i fratelli dell’Apg23, e non solo, di questa condivisione. Lo faccio testimoniando che un dialogo è possibile, spiegando che la diffidenza e il pregiudizio reciproci sono superabili, si può creare dialogo, empatia, amicizia, relazione, abbattendo dei muri comuni. Testimonio questo, attraverso incontri, convegni, porto con me esponenti del popolo Rom, persone comuni che ce l’hanno fatta. Approfondisco i temi, studio, mi preparo, non divulgo informazioni sommarie, cerco sempre di dettagliare e supportare con strumenti scientifici quello che dico. Dall’altra parte c’è la condivisione diretta: oltre ad avere tre rom accolti nella mia struttura, dal luglio 2019 sono responsabile di un progetto sperimentale: la prima casa di accoglienza per famiglie rom dell’Apg23. Abbiamo pensato e creato una casa che dia la possibilità ad intere famiglie di stare insieme. Al momento abbiamo accolto un nucleo familiare con sei bambini, con problemi di disabilità vari. In questo modo si è scampata la disgregazione della famiglia perché abbiamo fornito al tribunale e agli assistenti sociali una soluzione valida, una presa in carico globale. Mi appoggio anche a dei volontari che danno una mano in cose concrete. Personalmente, cerco di supportare tutte le case famiglia che si aprono all’accoglienza di fratelli rom. Credo che sia molto importante che qualcuno di qualificato faccia da tramite tra chi accoglie e chi è accolto. Riuscendo a comprendersi in profondità si cammina meglio. Molto spesso le difficoltà nascono dalla non comprensione. I fraintendimenti, spesso, sono legati a cose piccole”.
Cosa potrebbe fare lo Stato italiano per aiutare questo popolo?
“Abbiamo a nostra disposizione uno strumento efficace per quel che riguarda l’inclusione dei rom. C’è un documento, operativo e molto concreto, che si chiama ‘Strategia di inclusione nazionale dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti 2012-2020’, redatto a cura dell’Unar – Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali e dal Dipartimento per le pari opportunità del Ministero dell’Interno, attraverso un lavoro interministeriali. Questa strategia è nata in attuazione a una comunicazione dell’Unione europea. Documento che verrà proiettato verso il futuro con una nuova edizione. La strategia nazionale di inclusione dei Rom Sinti e Caminanti – anche se i Caminanti non fanno parte del popolo Rom, ci sono delle piccole comunità che vivono soprattutto in Sicilia – tratta nello specifico i quattro assi di inclusione sociale: casa, lavoro, salute, istruzione. Lo Stato italiano ha già uno strumento valido. Ritengo che il problema più grande sia che molti enti locali non conoscano, anzi che ignorino l’esistenza di questo documento. Studiando bene questo documento e confrontandosi con chi ha attuato buone pratiche, sicuramente si possono raggiungere obiettivi. L’improvvisazione è il male più grande”.