Una città cambia, quando è sotto un assedio, adattandosi alle necessità della guerra, pure se fino a poco prima viveva ispirandosi al modello di una qualsiasi altra città europea. Da giorni i mezzi d’informazione ci mostrano le strade semideserte o le file per l’approvvigionamento di beni essenziali, come contanti, generi alimentari, gasolio per il riscaldamento, nei centri abitati dell’Ucraina. C’è chi fugge in macchina, in treno, in autobus, percorrendo centinaia di chilometri per arrivare ai quei confini dove possono trovare riparo e accoglienza. Interris.it ha voluto raccogliere la testimonianza di chi, per via del suo lavoro, ha osservato Kiev, la capitale dell’Ucraina, cambiare in questa settimana sotto l’attacco militare dell’esercito russo, direttamente lì, in loco, sul terreno.
Non c’è un’ombra di retorica nelle parole di Cosimo Caridi, giornalista freelance torinese attualmente di stanza a Berlino, dov’è rientrato, autore di articoli e reportage pubblicati su testate come Il Fatto quotidiano, l’emittente televisiva nazionale Rai, Internazionale, e non solo. Per oltre un mese, da fine gennaio, è stato nella capitale ucraina per raccogliere “sul campo” le informazioni e lo stato d’animo delle persone. Le sue parole sono una cronaca che va all’essenza dei fatti, accompagnate da una lucida analisi.
Teatro di guerra nell’est Europa
Vedere con i propri occhi un teatro di guerra è sempre un’esperienza unica e spesso segnata dalla tragedia, ma permette anche di fare dei confronti e di riconoscere “l’eterno ritorno dell’uguale”. “Il bombardamento sulla capitale è stato all’inizio molto selettivo e non a tappeto”, racconta il reporter, “mentre il dispiegamento di forze è stato enorme, novecentomila effettivi, come da molto tempo non si vedeva”. L’armata russa, riepiloga Caridi, ha attaccato uno spazio enorme, con decine di chilometri di convogli, i missili cruise dalla Bielorussia, i mortai nel Donbass, le navi nel Mar Nero per colpire Mariupol. Sembra anche siano stati lanciati dei missili su Leopoli dalla Transnistria. “Ci sono comunque delle fasi ricorrenti in tutte le guerre, in alcune città gli scontri stanno sta diventando ‘strada per strada’, come abbiamo visto in Siria”.
L’atmosfera della città
“Sotto i primi bombardamenti russi c’era spavento, ma l’attacco a Kiev era visto come qualcosa di molto lontano, che sarebbe avvenuto col tempo”, racconta Caridi. “Le strutture del Paese, il governo e l’esercito, si sono comunque organizzate subito, perché si aspettavano che sarebbero arrivate le truppe”. Il giorno seguente, prosegue, sono arrivati i primi carri armati dal confine bielorusso, ci sono stati combattimenti tra forze ucraine e russe nell’area di Chernobyl, con la presa – da parte di queste ultime – dell’aeroporto di Hostomel, a 30 chilometri a nord dalla capitale. Con l’avvicinamento dei militari russi, spiega il reporter, “è scattato qualcosa”. “La difesa popolare, che gli ucraini chiamano difesa territoriale: sono 400mila uomini che negli ultimi sei-otto mesi si sono organizzati, secondo una legge entrata in vigore otto mesi fa, che permette ai cittadini di armarsi per difendere alcuni obiettivi. Questi ‘punti’ sono scelti in base a indicazioni che arrivano dai ministeri ucraini”. Queste associazioni si sono unite ai militari ucraini che difendono la città e si dedicano alla costruzione di barricate e alla gestione dei checkpoint di Kiev, racconta Caridi. Nel frattempo la città, che conta tre milioni di abitanti, vede ridursi risorse e servizi, come nell’albergo che ospita i giornalisti. “Le necessità cambiano perché la città si adatta alla guerra, per motivi di sicurezza e di difesa”, continua il giornalista. “E’ stato imposto il coprifuoco, per cui dopo una certa ora non si può più andare in strada. A momenti alterni, durante giornata, si sentono le sirene che annunciano i bombardamenti. Dopo arrivano i carri armati, allora inizia lo scambio di colpi tra ucraini e militari russi”. “La situazione può variare ancora nei prossimi giorni, con i civili che continuano a lasciare la città, il livello di scontro crescerà”, considera Caridi. “La città si svuoterà, circoleranno sempre meno persone ma saranno sempre più intente a combattere”.
Cosa manca
Nell’ultimo mese, prosegue il reporter, il municipio di Kiev aveva già diramato una serie di regole, suggerimenti e aiuti per far sì che tutti fossero più o meno pronti a un attacco. “C’è una lista di tutti bunker della città, così chiunque sa qual è quello più vicino a lui”. Come lo scantinato, la stazione della metro o un vecchio bunker di settant’anni fa, risalente alla Seconda guerra mondiale. “In questi posti servono cibo e riscaldamento, per cui più questa situazione si prolunga ci sarà una crisi umanitaria – racconta Caridi – “le prime cose che si esauriscono sono il gasolio e il contante, soprattutto quello in valuta estera”. I cittadini di Kiev, riflette il giornalista, hanno la stessa forma mentis degli europei, vivono immersi nella medesima cultura, usano gli stessi generi di consumo. “Domandiamoci noi cosa ci manca di più o cosa di cui abbiamo più bisogno, dopo una settimana in cui non possiamo più comprare nulla. E a questo aggiungiamo la paura di morire”.
Le cure
“I primi posti dove si formano le file sono le farmacie, ma il grosso problema riguarda gli ospedali”, racconta Caridi. “Se le strutture sanitarie si trovano ad essere carenti di medicinali o non sono più in grado di offrire servizi, il problema non è più del singolo. Ci sono trattamenti per cui non basta prendere una medicina, e la tragedia è non riuscire a portare avanti le cure”. Mentre gli aiuti umanitari, al momento, non dispongono ancora di canali per arrivare alla cittadinanza. “In questo momento la gente pensa a fuggire”.
La fuga
Le televisioni hanno mostrato in questi giorni file chilometriche ai confini del Paese, fotografia di quanti cercano la salvezza oltre frontiera. Chi può lasciare l’Ucraina, donne, bambini e anziani – non gli uomini tra i 18 e i 60 anni, per legge – lo fa in auto o in treno. La prima regola è evitare di scappare pensando di avere il favore del buio. “Meglio non scappare di notte, per non essere scambiati per qualcun altro, e comunque ci sono i controlli ai checkpoint”, spiega Caridi. Gli abitanti di Kiev che lasciano la città per andare verso la Polonia si trovano a scegliere tra un tragitto in macchina, lungo centinaia di chilometri e giorni di ‘attesa’ per poter passare dall’altra parte, oppure i treni, presi d’assalto e fin troppo carichi di passeggeri. Lasciandosi dietro un’abitazione in macerie, chi non ce l’ha fatta o è rimasto, il loro Paese.