#Andratuttobene è l’hashtag più usato in questo lungo tempo di pandemia. Ma, per le famiglie dei 22mila morti italiani (precisamente ad oggi i decessi sono 22.745) è fuor di metafora dire che “non tutto è andato bene”. Nel giro di poche settimane decine di migliaia di famiglie si sono viste costrette a dover affrontare la perdita – spesso repentina – di un proprio congiunto, nella stragrande maggioranza un cosiddetto “anziano”. Un termine neutro, forse un po’ disumanizzante, ma che nella realtà indica un nonno o una nonna, un padre o una madre, o fratello, sorella, zio, zia, cognato, nuora etc. Qualcuno, insomma, con un volto, un nome, un ruolo, una storia che faceva parte della cerchia familiare e amicale e che, se non fosse stato per il virus, sarebbe probabilmente ancora vivo. Il lutto è dunque l’altra faccia della medaglia di questa pandemia. C’è un’Italia idealmente spezzata in due: quella della maggioranza degli italiani che cantano dai balconi perché “l’hanno scampata” e quella dei restanti (e non sono pochi) che invece l’hanno “pagata cara”, o perché sono sopravvissuti dopo settimane di sofferente malattia (riportando anche dei danni permanenti alla salute) o, peggio, perché un loro caro non ce l’ha fatta.
Non solo numeri
I media hanno dato grande attenzione al primo gruppo: cosa fare in quarantena, come affrontare la solitudine, come aiutare i bambini a superare stress e paura. Dei morti invece si parla con i numeri (quelli snocciolati quotidianamente da telegiornali e Protezione Civile) o con foto-simbolo, come i camion militari che trasportano bare o i sacerdoti che fanno benedizioni collettive delle salme in chiese tristemente vuote. Ma dietro a un decesso, c’è spesso una famiglia che ne piange la dipartita. A tutti loro, ai dimenticati di questa immane tragedia, In Terris dedica questo approfondimento: i consigli da parte del prof. Gianluca Castelnuovo – Professore Ordinario di Psicologia Clinica Università Cattolica di Milano e Ricercatore e psicologo clinico IRCCS Istituto Auxologico Italiano, Ospedale San Giuseppe di Verbania – per superare un lutto diverso da quelli vissuti finora: quello “provocato” dal coronavirus.
“Patologia del lutto”
“E’ normale e fisiologico soffrire per un lutto, per la mancanza di una persona che non c’è più”, esordisce il prof. Castelnuovo. “Sarebbe invece in problema se la persona non avesse nessuna ripercussione sulla sua vita interiore. E’ invece normale un periodo limitato di dolore che deve essere vissuto, senza scorciatoie. La durata di questo periodo cambia da persona a persona, ma non si tratta di pochi giorni o, all’estremità opposta, di anni. Dipende invece da alcune variabili: che legame c’era con la persona scomparsa, se era un punto di riferimento, se viveva in casa o meno. Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – noto anche con la sigla DSM-5 – si inizia a ipotizzare una “patologia del lutto” dopo almeno 12 mesi per l’adulto – e almeno 6 mesi per il bambino – dalla perdita della persona casa. Se dopo questo lasso di tempo, la persona è ancora ‘congelata‘ nel suo dolore, la vita quotidiana non è ripartita, allora da un lutto fisiologico stiamo passando a uno persistente e si può ipotizzare una presa in carico da parte del medico analista”.
Un lutto diverso
“Quanto sopra descritto è quello che avveniva in tempi precedenti al coronavirus. Ora – prosegue il prof. Castelnuovo – siamo di fronte a una situazione completamente nuova. Prima, il ritorno alla normalità era scandito da alcuni momenti-chiave. Nello specifico, da due riti di passaggio. Purtroppo, proprio quelli che sono venuti a mancare in questa situazione di pandemia. Il primo è il cosiddetto ultimo saluto alla persona cara prima che muoia: una parola, una videochiamata, un abbraccio, tenergli la mano al momento del trapasso. Non conta la modalità: l’importante è esserci, possibilmente anche fisicamente. Il secondo rito di passaggio è il saluto finale collettivo: il funerale. Non importa se religioso o meno. E’ un’intera comunità e non solo la famiglia ristretta che dà l’ultimo saluto: vengono spese parole e ricordi sulle cose belle fatte in vita dal caro estinto, la parrocchia/il quartiere si stringono intorno ai parenti nel lutto. E, cosa importante, c’è poi la possibilità di andare a salutare e omaggiare la salma al cimitero. Questi due aspetti sono fondamentali nella nostra cultura per il passaggio dal lutto alla normalità. Ma purtroppo, a causa del coronavirus, sono venuti entrambi a mancare”.
Cosa è cambiato
“Rispetto a prima – spiega il prof. Castelnuovo – alcuni aspetti sono dunque cambiati. In primis, c’è stato spesso un passaggio rapidissimo dai primi sintomi (magari non preoccupanti), all’aggravamento, al ricovero, all’isolamento e al repentino decesso della persona cara. Alcuni familiari non hanno neppure fatto in tempo a dare l’ultimo saluto prima che il malato uscisse di casa. Non hanno potuto contattare il parente ricoverato: alcuni infermieri e operatori sanitari hanno permesso una videochiamata, ma sono stati l’eccezione. Non hanno poi potuto assistere al momento della morte. Infine, non hanno potuto celebrare il funerale. Il fatto che siano venuti a mancare questi riti di passaggio fondamentali per la nostra cultura ha creato una serie di problemi psicologici nuovi. Per esempio, alcuni miei pazienti hanno detto di sentirsi congelati, dentro una bolla, come se il loro parente non fosse scomparso, perché era come se non fosse stato salutato”.
Come superare il lutto: i 5 passi
- Recuperare i riti di passaggio perduti per permettere la rielaborazione de lutto. Fare perciò il rito di saluto collettivo appena possibile e nella modalità che si ritengono più opportuno.
- Evitare di pensare/parlare in modo continuo della perdita e della persona estinta. In attesa di poter compiere il rito di passaggio, il ricordo del defunto deve avvenire in un lasso di spazio e tempo determinato e limitato: una mezz’ora in camera propria a rivedere foto o ripensare al proprio genitore o nonno; magari piangere un po’, rendo omaggio al defunto … ma poi esco dal “museo di ricordi” dei momenti più belli, cambio stanza e riprendo la mia vita normale. Cioè bisogna andare avanti, perché la vita prosegue.
- Non parlare continuamente del coronavirus: morti, contagi, conoscenti intubati etc. Limitare anche la visione dei telegiornali e la lettura delle notizie riguardanti il covid a non più di due volte al giorno. Il nostro cervello è bombardato da notizie funeste ma il mondo è anche altro. Si dà troppo poco spazio alle belle notizie.
- Rimanere vicini alle persone care, anche se sono fisicamente distanti. Spesso i media usano un termine che fa cadere in errore: il cosiddetto “distanziamento sociale”. Bisognerebbe dire invece “distanziamento fisico” perché la società non si è disgregata! Le persone socialmente sono vicine grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. Bisogna sfruttare questa opportunità e rimanere connessi con chi ci vuole bene.
- Ricostruire una nuova quotidianità “di passaggio” verso il mondo esterno. Non ci sarà una ripresa immediata della vita normale come quella pre-virus; ma un lungo e logorante periodo di convivenza con la malattia. E’ dunque importante ricostruire nuove modalità di interazione sociale – che saranno limitate ma non devono venire azzerate – fino a quando non potremo riprendere le attività consuete.
Quali consigli per coloro che soffrono di un forte senso di colpa perché pensano di essere stati loro il tramite del contagio verso il parente defunto?
- E’ importante farsi questa domanda: “Ho fatto tutto il possibile?”. Vale a dire: “Ho usato mascherine e guanti protettivi? Ho mantenuto le distanze di sicurezza?”. Ognuno è responsabile solo delle proprie azioni, ma non del risultato finale. I parenti infatti possono fare ben poco per i malati, specie se si tratta di un anziano con problemi pregressi. E’ impossibile infatti controllare tutte le dinamiche in ballo in una situazione complessa come questa.
- Nel caso delle persone che sanno di essere stati loro gli “untori” dei propri cari poi deceduti, il senso di colpa è molto grande e molto radicato e non deve essere sottovalutato. Non basta il discorso del punto precedente. L’unica cosa che funziona è un lavoro individuale ed approfondito con uno specialista per un supporto psicologico. Perché non è risolvibile automaticamente: si rischia invece di incancrenire il senso di colpa innescando un sentimento di disistima e svalutazione di sé che possono portare a una forte depressione fino ad atti autolesionistici o pensieri suicidari del tipo: “Sono io il colpevole, non merito questa vita”. Oppure quegli operatori sanitari che si sentono in colpa perché hanno dovuto scegliere a chi dare il respiratore, decretando la vita o la morte di qualcuno. In tutti questi casi, dove il senso di colpa è molto profondo, è necessario fare un percorso in cui si recuperano le risorse della persona, si cerca di capire cosa si è imparato dalla brutta esperienza e che cosa fare per compensare l’eventuale errore. E’ un cammino lungo, profondo, che per alcuni dura dei mesi o degli anni, ma è necessario.
Passiamo ai consigli per i bambini: prof. Castelnuovo, come aiutarli ad elaborare il lutto?
- Facendoli esprimere sul lutto e sul dolore con i loro specifici linguaggi, che sono diversi da quelli degli adulti, al fine di validare le loro emozioni. Speso disegnano o scrivono o hanno comportamenti specifici, come piangere o litigare con i familiari. L’importante è che si esprimano: non lasciamoli rimuginare in silenzio la sofferenza perché ciò potrebbe portare a delle reazioni psicosomatiche, come il mal di pancia o le emicranie.
- Aiutarli a comprendere che non sono gli unici ad aver vissuto quell’esperienza. Altri conoscenti e altri bambini potrebbero aver perso un nonno o una persona casa.
- Farli sfogare fisicamente attraverso l’attività fisica, da svolgere anche in assenza di spazi all’aperto. Anche lasciandoli saltare sul letto, o seguendo i video su internet di ginnastica. Troppa emotività non scaricata può portare a insonnia e malumore.
- Stabilire la nuova routine casalinga (colazione, compiti, gioco…) e poi rispettarla, senza stravolgere gli orari rispetto a quando andavano a scuola. Specialmente quelli serali.
- Con tutorial o fiabe specifiche parlare della morte: che la vita ha un inizio, un ciclo e una fine. Lasciarlo sfogare sulle proprie sensazioni e lasciarlo piangere. Anche se non si è credenti, dire al bimbo che la persona cara sta in cielo, che è viva, presente, e che perciò possiamo dedicargli dei disegni perché ci segue e custodisce dall’alto. Questo serve al bambino per capire che, anche se il nonno non c’è più fisicamente, è però ancora presente spiritualmente.