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Come ricostruire una comunità dopo un’emergenza

L’intervista di Interris.it a Ludovica Gregori, vincitrice del premio Rising Stars Under30 del concorso New European Bauhaus con il progetto “Ricostruzione sociale nel post emergenza” su Accumoli

Nella notte del 24 agosto 2016, una violenta scossa di terremoto di magnitudine sei con epicentro Accumoli, nella parte estrema della provincia di Rieti e ultimo Comune del Lazio prima di entrare nelle Marche, pressoché al crocevia tra le Regioni del Centro Italia colpite da quella che l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha poi definito la scossa sismica Amatrice-Norcia-Visso (i Comuni al confine umbro-marchigiano interessati dalle repliche del terremoto del 26 e del 30 ottobre). Quella notte di fine estate la Valle del Tronto ha assistito alla distruzione di Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, con le relative frazioni, e sono state spezzate quasi trecento vite. La Protezione Civile ha riportato 299 vittime. Paesi rasi al suolo, edifici ridotti in macerie: una ferita dell’anima di chi ha perso una persona cara, un amico, un conoscente o la propria casa, che non si rimargina e il cui dolore trattiene dalla possibilità di comunicare ciò che si ha dentro, di esprimersi, di tornare a incontrare le persone e a vivere i luoghi.

Gli anni trascorsi nei moduli S.A.E (soluzioni abitative di emergenza), le “casette” sparpagliate che portano gli stessi segni interiori di chi ci vive, isolamento e inerzia, o nelle riedificazioni tirate su dai privati, senza una linea generale e nella quasi assenza di servizi, in attesa della ricostruzione vera e propria di quella che fino a sei anni fa era la loro città, hanno portato i residenti a curare i propri spazi personali, non avendo più quelli comuni a disposizione. Ogni superstite del terremoto ha un proprio vissuto legato a quell’evento, un proprio trauma che, dopo una fase di mutuo soccorso e aggregazione nell’immediato post disastro, quasi recide le relazioni interpersonali, spegnendo il senso di comunità. Nel crollo si perde un segno d’identità sociale e un punto di riferimento.

Per gentile concessione di Ludovica Gregori

Ma non ci può essere ricostruzione di un paese senza prima la ricostruzione dei rapporti umani, che sono la malta e i mattoni della comunità. “Ricostruire non è una formula magica. Nella fase a cavallo tra l’emergenza e la ricostruzione le persone sono fragili e occorre lavorare su di loro, sulla loro capacità di reincontrarsi, sul loro percepire di essere parte di una comunità. La sfida è creare socialità senza formalità”, spiega a Interris.it Ludovica Gregori, architetto, dottoranda in Architettura all’Università di Firenze e vincitrice, insieme ad altri nove giovani tra oltre duemila candidati, del premio Rising Stars Under30 del concorso New European Bauhaus, nella categoria Reinvented place to meet and share (Luoghi reinventati per incontrarsi e condividere), con il progetto “Ricostruzione sociale nel post-emergenza”.

Per gentile concessione di Ludovica Gregori

Sostenibilità sociale

“Tra i motivi per cui ho scelto di concentrarmi su Accumoli ci sono le caratteristiche del paese, il fatto che si è parlato molto di Amatrice, dimenticando gli altri paesi del cratere, e il mio attaccamento al territorio, dato che sono originaria del reatino”, illustra Gregori. Sul piano metodologico, la raccolta di dati e informazioni è avvenuta in maniera diretta “con sopralluoghi e parlando con le persone”. Da questa ricerca è emerso che i residenti necessitano di ricreare relazioni, più che di struttura aggregative, perché “senza sostenibilità sociale non c’è sostenibilità economica né sostenibilità ambientale”, argomento l’autrice del progetto. “Elemento costante di ogni villaggio sono gli spazi aperti, dove le persone interagiscono in modo spontaneo, e non le strutture” – chiarisce –  “l’interazione aiuta le persone a percepirsi parte di una comunità in cui molte sono anziane, altre tra i 40 e i 60 anni che hanno perso lavori stabili e giovani che, seppur dimostrando maggior resilienza al trauma, soffrono la mancanza di un futuro sul territorio”. “Il mio lavoro punta a ricucire la comunità con gli spazi aperti, sulla capacità di condividere”, continua Gregori che nel corso delle sue ricerche ha parlato con gli psicologi che hanno seguito le persone del posto, i quali le hanno spiegato che le dinamiche che seguono il trauma e l’impatto sulle diverse fasce d’età, ha condotto interviste approfondite. “Ognuno ha la sua storia legata al terremoto, non si può dare una definizione del singolo”, racconta. “Una signora anziana non usciva più di casa”, un modulo S.A.E., “e non sapeva nemmeno di che colore fosse la sala prove temporanea della banda di Accumoli a poche decine di metri di distanza”.

Il ruolo dell’architettura

Al momento la maggior parte dei residenti alloggia ancora nelle “casette”, distribuite sul territorio secondo “alcune scelte funzionali e altre più emotive, come il voler rimanere vicino alle case che si sono perdute e questo rallenta tutto il processo” di ricostruzione sociale, mentre nei Comuni più grandi si è avviata un po’ di ricostruzione edilizia, da parte dei privati, ma senza una vera linea generale. Partendo dal principio che l’architettura influenza il comportamento delle persone e viceversa, basandosi su studi di sociologia urbana e di environmental psichology (psicologia dello spazio urbano), Gregori spiega qual è la sfida da vincere, “creare socialità senza formalità”. “L’architettura può avere un ruolo attivo nella fase tra l’emergenza e la ricostruzione, dov’è necessario portare le persone a interagire di nuovo, a elaborare il trauma e diventare una comunità resiliente”. La risposta possono essere gli spazi pubblici aperti come luoghi d’incontro. “Nel mio progetto, propongo di lavorare sulle planimetrie dei villaggi organizzati nel post-sima, pensando gli spazi in funzione delle attività delle persone per facilitare l’incontro. Ad esempio, avere più persone che utilizzano gli stessi percorsi pubblici, più ampi rispetto a quelli ‘privati’, tra i moduli abitativi, altre a rappresentare un minor consumo del suolo, possono favorire gli incontri, l’interazione spontanea e quindi la percezione di fare parte di una comunità”.

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