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“Coltivare il futuro”, un esempio di agricoltura e sostenibilità per il Kenya

L'intervista di Interris.it a Luca Piazzi, referente progettuale di Ipsia Acli per le attività nel paese del Corno d'Africa

Il Kenya è uno stato dell’Africa orientale di oltre 54 milioni di abitanti la cui capitale è Nairobi. Inoltre, lo stesso, è una ex colonia inglese indipendente dal 1963.

La siccità

Nel corso degli ultimi due anni il paese del Corno d’Africa è stato lambito da una gravissima forma di siccità, tanto che, 4,4 milioni di persone in condizioni di grave insicurezza alimentare e 1,2 milioni in condizioni di emergenza, a causa della imponente crisi idrica.

L’opera di Ipsia Acli

In Kenya, dal 2006, opera Ipsia Acli che, dopo alcuni progetti iniziali a supporto di alcuni gruppi informali nelle baraccopoli di Nairobi, si sta concentrando sull’agricoltura, l’imprenditoria sociale e l’ambiente, con un intervento maggiormente indirizzato alle zone rurali, attraverso il progetto denominato “Coltivare il futuro”. Interris.it, in merito a questa attività di supporto e sviluppo, ha intervistato Luca Piazzi, referente progettuale di Ipsia Acli per il paese in questione.

Siccità (© PublicDomainPictures da Pixabay)

L’intervista

Come nasce e che obiettivi ha il progetto “Coltivare il futuro”?

“Il progetto “Coltivare il futuro” è nato nel 2017 – 2018 quando, in Kenya, nel corso di attività precedenti, un partner in loco per fare attività di formazione nell’area di Tharaka. In seguito, vedendo le attività che gli stessi realizzavano in favore delle popolazioni Masai di quella zona caratterizzata da un clima arido e semi arido, ci era sembrato interessante e in linea con le attività che già portavano avanti nel paese, ossia la valorizzazione delle filiere agroalimentari locali. Quindi, abbiamo iniziato a lavorare su un progetto insieme, con l’intento di andare a rafforzare ciò che loro facevano. L’obiettivo generale del progetto è quello di migliorare la capacità di resilienza di queste popolazioni, guardando alla condizione climatica che, già all’epoca, era caratterizzata da una scarsa presenza di piogge, aridità dei terreni la quale, negli ultimi due anni, a causa della siccità piuttosto marcata, sta peggiorando. In particolare, le stagioni delle piogge che, in Kenya dovrebbero essere due all’anno, in molte aree non si verificano o sono troppo brevi per giovare alle coltivazioni. Di conseguenza, l’idea del progetto, è quella di rafforzare delle possibilità di avere delle attività generatrici di reddito per queste comunità, compatibili con il clima che caratterizza la regione, ossia con delle filiere compatibili in queste zone, migliorando nel contempo l’accesso idrico, al fine di migliorare le entrate e la disponibilità nutrizionale del contesto.”

© Gianni Crestani da Pixabay

Quali sono le attività e le forme di agricoltura che avete incentivato in questo contesto?

“Le attività principali sono costituite dall’incentivazione dell’accesso idrico il quale, per alcune comunità, ha significato la perforazione di pozzi che, in queste zone, arrivano fino a 100 – 150 metri di profondità prima di avere la disponibilità di acqua per le coltivazioni, senza i quali, si dipenderebbe sempre dalle piogge le quali però sono sempre piuttosto rare. Nei luoghi in cui la falda non era disponibile, si sono realizzati dei serbatoi di raccolta dell’acqua piovana nelle alture circostanti, che permettono di convogliare delle quantità d’acqua rilevanti. Inoltre, la raccolta dell’acqua piovana è stata sostenuta e favorita in tutte le comunità dove erano e sono presenti delle strutture per raccoglierla in quantità minori. Accanto a ciò, c’è una formazione ed un accompagnamento alle attività di piccola agricoltura, realizzata dal nostro partner locale, in quanto si tratta principalmente di comunità Masai nelle quali predomina l’allevamento svolto da uomini. Noi invece, abbiamo lavorato soprattutto sulla componente femminile delle comunità in cui, non sempre, c’erano delle competenze legate all’attività agricola. In particolare, tra tali attività, viene promossa la permacultura, ovvero un approccio generale tra gli insediamenti umani e il rapporto con il pianeta, nel quale si lavora con la natura e mai contro di essa e si cerca di affrontare i problemi come opportunità. Inoltre, rispetto allo specifico ambito agricolo, secondo tale approccio, non si utilizzano i fertilizzanti o pesticidi chimici, al fine di evitare di avvelenare il terreno o le falde acquifere. Si cerca invece di promuovere la biodiversità e le sementi locali, combattendo gli agenti patogeni attraverso la scelta delle piante e lo studio dell’ambiente, evitando la monocultura e creando le cosiddette ‘food forest’, che permettono di avere dei raccolti tutto l’anno. Ulteriori attività invece riguardavano la valorizzazione di alcune filiere su cui già precedentemente si stava lavorando con il partner locale, ovvero l’aloe per la produzione di cosmetici, la valorizzazione del miele attraverso un rafforzamento dell’apicoltura, che costituisce un elemento di sinergia per le altre coltivazioni a causa dell’impollinazione ed ha un buon mercato locale. Oltre a ciò, insieme all’Università di Nairobi e di Milano, in riguardo a una specie di cactus locale invasiva e potenzialmente dannosa – detta opuntia – che, invece di essere bruciata o estirpata, viene usata per produrre una bevanda dai suoi frutti, si utilizzano i suoi semi al fine di ricavarne un olio per la cosmesi e ricavare gas per le cucine dalle sue foglie, dopo uno specifico processo di triturazione. Infine, l’ultima azione che svolgiamo, è la valorizzazione del turismo locale e internazionale, attraverso l’ampliamento delle possibilità di accoglienza di queste comunità che, dopo un periodo di riduzione dovuto al Covid-19, sta riprendendo.”

Quali sono i vostri auspici per il futuro? In che modo, chi lo desidera, può aiutare la vostra azione?

“Il nostro auspicio per il futuro è che, queste esperienze, possano proseguire. Ci sono ancora molti ambiti su cui operare e, in futuro, vogliamo lavorare con i pastori locali, al fine di avere una gestione sostenibile delle mandrie. Ciò è molto difficile perché, per i Masai, il numero elevato di bovini, rappresenta la ricchezza della famiglia ed è un elemento fortemente simbolico dal punto di vista culturale. Vorremmo quindi trovare, insieme ai pastori, delle fonti di reddito alternativo per ridurre la pressione delle mandrie sul territorio, provando a sperimentare delle metodologie per la rigenerazione dei pascoli e, allo stesso tempo, ridurre l’erosione dei suoli. Chi vuole supportare le nostre attività può accedere al nostro sito dove sono indicate tutte le modalità per poter contribuire ai nostri progetti.”

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