Cinema e razzismo: la settima arte fra immagine e denuncia sociale

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“Non ho commenti da fare sull’argomento della schiavitù. Chi legge questo libro potrà formarsi una propria opinione di questa ‘istituzione peculiare'”. Discorso chiuso o quasi per Solomon Northup, al termine del racconto dei suoi 12 anni vissuti da schiavo. Sufficienti, secondo l’autore, affinché il lettore potesse farsi un’idea della condizione dei neri nelle piantagioni, prima che il XIII emendamento mettesse fine allo schiavismo nel Sud degli Stati Uniti. Da libro diverrà film la vicenda drammatica di Solomon Northup, violinista di talento, rapito e venduto come schiavo. Sottoposto, come (tanti) altri che non ebbero la fortuna di raccontare la loro esperienza, alle più atroci vessazioni affinché dimenticasse la propria identità di uomo libero per accettare quella di merce.

Rappresentazioni iconiche

Non è stato il primo tentativo 12 anni schiavo, e forse nemmeno il più iconico di rappresentare il dramma vissuto dai neri in America. Difficile dimenticare la Celie de Il colore viola, Steven Spielberg alla regia e una magistrale Whoopi Goldberg nei panni della struggente protagonista. Più leggera, forse con qualche sfumatura stereotipata, la descrizione della Georgia post-Guerra civile di Song of the South, prodotto da Walt Disney e con James Baskett a prestare il volto all’allegro zio Remus. Film storici, ambientati al di qua della Guerra di secessione americana, quando i preconcetti e i pregiudizi si infiltravano nelle maglie di un tessuto sociale fatto a pezzi dal conflitto. Al quale, specie nel profondo Sud, poco importava che gli ex schiavi fossero ormai cittadini come gli altri. Victor Fleming, anno 1939, fece una scelta diversa: né prima né dopo il Nord contro Sud. Via col vento si piazzava nel durante, con la Tara dei protagonisti a rappresentare una qualsiasi piantagione sulla strada della “terra bruciata” del generale Sherman. E, naturalmente, coi protagonisti a incarnare i lineamenti dell’area confederata del Paese.

Il caso “Via col vento”

Probabilmente, a ottant’anni suonati dall’uscita del film, nessuno poteva immaginare che proprio quella pellicola, pietra miliare della storia del cinema, potesse subire una sorte che non fosse l’ammirazione. Tralasciando la contestualizzazione (perché Gone with the wind di Margareth Mitchell fu innanzitutto un romanzo, anzi, un best-seller per l’epoca), il kolossal di Fleming finisce nel vortice delle istanze sollevate dal caso George Floyd. Abbattuto, come accaduto ad alcuni monumenti accusati di rappresentare emblemi del razzismo, la Hbo ha deciso per ora di oscurarlo. Persino Netflix ha pensato di avvertire i propri spettatori della sua realizzazione “con un contestato approccio razzista“. Invitando, al contempo, a informarsi sulla condizione dei neri in America cercando “Black lives matter”.

Cinema, idealizzazione e realtà

E’ certamente una società del Sud idealizzata quella che Via col vento, film e romanzo, sceglie di rappresentare. Bianchi padroni, neri schiavi, nessun accenno all’atrocità della schiavitù, anzi, un rapporto quasi filiale fra la Mami (altro stereotipo dell’epoca) che valse l’Oscar ad Hattie McDaniel (prima afroamericana della storia) e gli altri protagonisti. Non era così, la storia lo ha insegnato, ma Via col vento (ancora, romanzo e film) in fondo non è mai stato presentato, come accaduto ad altre pellicole, come un quadro della schiavitù negli Stati Uniti. La storia americana scorre accanto a quella dei protagonisti, vero pilastro del racconto, che concede all’arte la licenza dell’idealizzazione. Che sia giusto o meno è qualcosa che ha sempre fatto discutere. Ma, in fondo, spetterebbe allo spettatore discernere, attraverso un’interpretazione in grado di separare la realtà dallo schermo.

Decorsi storici

Diverso il concetto per altre pellicole che, appositamente, scelgono la strada dell’arte per incarnare la denuncia sociale. Il BlackKklansman di Spike Lee ad esempio, che fra ironia e crudezza, chiama a raccolta le menti delle nuove generazioni sull’urgenza di una presa di coscienza. “Nessuno ha detto che verrà bruciato il negativo di Via col vento – ha spiegato a Interris.it Claudio Siniscalchi, storico del cinema e docente alla Lumsa -, ma solo che non era il caso di passarlo in quel momento. In linea di principio è sbagliato, assurdo se vogliamo in termini assoluti, perché fu un film anche coraggioso per l’epoca. Ma, appunto, era l’epoca. L’attrice che vinse l’Oscar la fecero passare dal retrobottega, perché i neri non potevano passare dall’ingresso principale. E lo stesso stava accadendo con Dooley Wilson, interprete di Sam in Casablanca. Ci sono una serie di problematiche che ruotano attorno a questo caso e che sono drammatiche. Non lo so come andrà a finire: ora sembra che tutte le statue verranno buttate giù, ma le statue si possono anche ricostruire”. Il punto focale è la comprensione del periodo storico che si vive e quale lettura del passato arrivi dalle lenti del presente: “L’impressione è che sia una tendenza modale, addirittura un chiacchiericcio. Bisogna avere, e questo lo dice la storia, la prospettiva degli eventi. Tutte le ‘mode’ portano con sé delle esagerazioni, e questo è l’ennesimo esempio. Quello che sembrava granitico fino a ieri oggi non lo è più. I libri di semiotica, ad esempio, nessuno li compra più. Il senso della misura spesso in queste polemiche si perde. L’intervista di John Wayne a Playboy, nel ’76, all’epoca non fece nessun scalpore. Oggi, dopo tanti anni, vale l’abbattimento di una statua“.

Non solo cliché

Questione di cliché, ma non solo: “C’è stato un periodo in cui la Guerra del Vietnam veniva rappresentata cinematograficamente in un certo modo. Oggi il cliché è cambiato e nessuno farebbe più un film sul plot della ‘sporca guerra’. Ragionare sui fatti storici senza aver aspettato il decorso è sempre rischioso. Il politicamente corretto si presenta in un’epoca storica in cui la sinistra internazionale passa da rappresentazione delle esigenze sociali a una società di difensori di questioni individuali. Non so se tutto quello accaduto in America influirà o meno sulla rielezione di Trump. Ma la maggioranza resta conservatrice, e forse ci potrebbe essere persino la possibilità che ne esca illeso”. Del resto, la lettura analitica (e anche satirica) della società il cinema se l’è sempre riservata. Lo stesso Kubrick scelse le note di “Hello Vietnam” in apertura del celebre Full Metal Jacket. Una denuncia del folle ideale del “born to kill” attraverso i suoi stessi strumenti. Impresa riuscita.

Damiano Mattana: