Carità e preghiera. La condivisione contro il virus killer

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“Siamo meglio, o peggio rispetto al pre-Covid? Siamo più buoni o più arrabbiati? Più benevoli con gli altri o più sospettosi? O siamo rimasti quelli che eravamo? Domande che aleggiano ormai da un po’ tra discorsi informali e riflessioni scritte”, afferma a Interris.it la psicologa e psicoterapeuta Chiara D’Urbano. Perito dei Tribunali del Vicariato di Roma, Chiara D’Urbano collabora nella ricerca e nella docenza con l’istituto di studi superiori sulla donna dell’Ateneo pontificio Regina Apostolorum. Per il sito della casa editrice Città Nuova la professoressa D’Urbano segue una rubrica on line sulla vita in comune e cura un blog sulla vita consacrata.

Vocazione alla condivisione

“Adesso siamo al ‘dopo’, quando la vita ordinaria riprende più o meno il suo corso, dopo un tempo inaudito. Ma è tornata l’ordinarietà?”, si chiede psicologa e psicoterapeuta.

Da cosa nasce tanta insicurezza diffusa?

“Gli interrogativi aperti col trauma della pandemia sono tanti, e il rischio di scadere nella retorica direi che è altissimo. Di certo un evento così drammatico e luttuoso, al di là di come individualmente è stato vissuto, ha lasciato dei segni, che potremmo riassumere come un senso di precarietà e diffidenza generalizzati”.

E adesso?

“Proprio non ci voleva, si direbbe. La vita, tra lavoro e relazioni, era già abbastanza incerta. Ora siamo su un crinale: da una parte il bisogno di ritrovare i contatti umani sospesi in questi mesi, dall’altra la paura di commettere imprudenze con quell’abbraccio strappato alla regola della distanza”.

Con quali conseguenze?

“Tra noi c’è chi ha perso il lavoro e chi magari ne ha risentito molto meno; chi ha vissuto con enorme fatica la costrizione in ambienti non proprio sereni ed accoglienti, e chi invece dice di aver riguadagnato pezzi di vita e di famiglia. Se andiamo a vedere, però, tutti abbiamo vissuto un’esperienza dirompente e oggi viviamo il terrore che possa succedere di nuovo un imprevedibile; nessuno è esente da pensieri foschi per sé e per i propri cari”.

In che modo si può reagire a questo senso di smarrimento?

“A questo punto dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo. Non ho mai capito il vecchio proverbio ‘chi pensa per sé pensa per tre!’ e ancor meno lo capisco ora in un momento storico pieno di incertezze dove invece abbiamo bisogno di aprire gli occhi oltre il nostro spazio blindato e ottuso. Questo si è reso incredibilmente evidente: ‘siamo tutti sulla stessa barca!’. Come ci ricordava in maggio il nostro Papa”.

E’ una condizione condivisa?

“Sì perché tutti, ma proprio tutti abbiamo visto crollare un sistema conosciuto di vita. Mentre in altre situazioni possiamo pensare – comunque erroneamente – che la cosa non ci riguardi, tocchi questa o quell’area, questo o quel popolo, ora siamo tutti accomunati, trasversalmente alla cultura, alla condizione sociale, alla geografia”.

Secondo quali modalità può esprimersi il cambiamento?

“Dobbiamo riscrivere una grammatica della condivisione, perché se prima eravamo inconsapevolmente accomodati sulla nostra autoreferenzialità, ora lo stop bruco e imprevisto del virus ha cambiato le carte in tavola. Perciò, scossi come siamo da una chiusura mai vissuta nella storia con queste dimensioni, impauriti che l’altro sia una specie di nemico contagioso (‘ma dove sei stato?’, ‘vieni mica da una delle regioni rosse?’) dobbiamo necessariamente recuperare o reimparare a pensarci come un’unica famiglia umana”.

E’ un’ipotesi che ritiene realistica?

“Non abbiamo altre strade per uscire e dare senso al tempo anomalo che stiamo attraversando. Esattamente oggi, ora. Penso ai luoghi che per ‘vocazione’ condividono: le comunità di fede, quelle dei consacrati/delle consacrate, quelle dei sacerdoti con le loro realtà parrocchiali. Le possiamo pensare su larga scala?”.

A cosa si riferisce?

“Quello che mi sembra chiaro è che l’umanità è stata ferita nelle sue già poche certezze e non ne veniamo fuori se non proviamo a consolarci a vicenda, a darci coraggio a vicenda, a dare una mano dove e come possiamo”.

E’ una mobilitazione che parte dal basso?

“Espressioni di solidarietà e condivisione ne abbiamo viste tante: si sono attivati aiuti agli anziani, a chi non aveva possibilità di uscire di casa neppure per fare la spesa, punti di ascolto telefonico per attutire la solitudine di molti, collaborazione tra persone dello stesso palazzo. Solo che queste iniziative eccezionali, legate a mesi eccezionali, potrebbero diventare la norma”.

Quali esigenze ravvisa in particolare?

“Abbiamo tutti un incredibile bisogno di uscire dall’isolamento in cui, se siamo onesti, rischiamo di finire presi dagli impegni lavorativi e familiari sempre più complessi”.

Cosa risponde a chi considera la pandemia una punizione divina?

“No, non è stato Dio a mandarci il coronavirus per darci una lezione di vita, Dio non ha questa pedagogia, non è un vendicatore, né un padre violento. A noi compete meno la domanda sul perché e molto di più quella su come metterci a servizio di questo tempo. Però anziché rimanere spettatori passivi possiamo iniziare un movimento di cuore, cioè iniziare a dare ascolto e attenzione a chi ci sta accanto e che spesso nasconde l’angoscia dell’incertezza”.

Vede il rischio di un’accidia di massa?

“In genere ci attiviamo solo dopo che accadono drammi e allora si manifesta grande stupore che un insospettabile abbia commesso un gesto omicida verso sé o verso altri, per poi scoprire che la sua vita era un silenzioso disastro, di cui nessuno si era reso sufficientemente conto.Ecco, credo che questa indifferenza abbia la chance, ora, di ridursi”.

Può farci un esempio?

“Chi non ha fede, ma anche chi fede ne ha, può aver bisogno di sentirsi rassicurato, di sapere che non è solo di fronte alla paura del lavoro in crisi, o di un congiunto che si è ammalato. Non parlo di soluzioni concrete, non ne avrei, a parte suggerire di esprimere e tirar fuori l’ansia di ciò che si vive e chiedere aiuto quando si sente di non farcela con le proprie forze. Provo piuttosto a cercare ispirazione da chi ha provato a condividere con altri l’emergenza della pandemia e adesso l’uscita per il rientro al quotidiano”.

Qual è il vaccino contro la paura?

“Penso al Papa solitario sul sagrato di San Pietro che ha voluto condividere lo sconforto dell’umanità facendosi presente e visibile con parole di fede e di speranza. Magari fossimo capaci di aiutarci a risollevare lo sguardo, a tentare un recupero di spiritualità, che vuol dire vedere oltre senza rimanere schiacciati dal presente”.

Cosa significa?

“Vuol dire che è possibile vivere la letizia e comunicarla anche in condizioni difficili, che non c’è nessuno da maledire se è piombato un imprevisto nelle nostre storie”.

Da cosa nasce la speranza?

“Ritengo utile condividere le parole scritte da una donna, in tempi ben peggiori: ‘Mio Dio è un periodo troppo duro per persone fragili come me. So che seguirà un periodo diverso, un periodo di umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi verranno di certo'(Etty Hillesum, Diario 1941-1943)”.

Giacomo Galeazzi: