Cetacei a rischio: le reti illegali come i ramponi

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Non molti esemplari di cetacei hanno avuto un nome conosciuto da tutti. Forse nella letteratura sì, anche se con qualche licenza tecnica di fondo. Ad esempio, pare che la mitica balena bianca Moby Dick vada identificata piuttosto come un capodoglio. Certo, forse il romanzo di Melville è un esempio comune ma, più in generale, la tendenza a utilizzare il termine “balena” per indicare i cetacei di grandi dimensioni esiste. Ed è una convenzione talmente comune da non stupire più nemmeno gli esperti del settore. Naturalmente la giustifica vale per il grande pubblico ma non quando a finire sul tavolo è lo studio disciplinato di questi spettacolari mammiferi, delle loro abitudini e anche dei rischi che corrono nuotando in un mare sempre più antropico. Il risultato è che, pur nelle loro distinzioni, l’appartenenza all’ordine Cetacea traccia un filo rosso per buona parte di questi animali. E per le minacce che incombono sulla loro sopravvivenza.

Uomo e balena

Non è più (solo) questione di caccia alla balena. Magari lo spermaceti dei capodogli non serve più ad accendere candele, ma la presa delle acque territoriali come una sorta di prolungamento della terraferma ha di fatto reso il mare una componente di rilievo nel cosiddetto antropocene. E, per estensione, uno degli elementi più vulnerabili, sul piano della flora acquatica, così come della fauna. In questo senso, l’esistenza dei cetacei (dai delfini alle balenottere) nelle nostre acque non corre meno rischi di una barriera corallina. E una rete dimenticata a mollo o piazzata illegalmente al largo di un porto, come accaduto circa due settimane fa nelle acque delle Eolie, vale quanto un rampone lanciato da un baleniere.

Faccia a faccia con i cetacei

Quello fra uomo e balena (ora sì in senso esteso) è un rapporto che, oggi come oggi, chiede una tutela speciale verso chi fa parte delle seconde. In gioco, c’è la sopravvivenza di una lunga serie di specie che giocano un ruolo vitale per gli ecosistemi marini. Valerio Manfrini è un biologo, dal 2003 socio del Centro Studi Cetacei Onlus (CSC) – la prima rete nazionale italiana di recupero cetacei e tartarughe nata nel 1985 –. E la sua esperienza ventennale sul campo, come quella dei suoi colleghi, rappresenta il viatico della maggiore conoscenza specifica di queste specie. E, naturalmente, uno spaccato sui pericoli che incombono su di loro: “Una delle conseguenze più evidenti dell’impatto umano sui cetacei, e non solo – ha spiegato a Interris.it -, è lo spiaggiamento ovvero quando i cetacei si arenano sulla spiaggia o in acque basse. Questo fenomeno di portata globale è complesso e di non facile risoluzione”.

Specie a rischio

Questo perché “le minacce e le cause di origine antropica sono svariate. I cetacei sono caratterizzati da bioaccumulo e biomagnificazione ovvero nei loro tessuti si possono accumulare concentrazioni elevatissime di sostanze tossiche (es. piombo, mercurio, policlorobifenili o PCB delle vernici o dei lubrificanti) che sul lungo periodo portano a un abbassamento delle loro difese immunitarie con tutto ciò che ne consegue”. Ma c’è anche altro: “Un’altra causa sono gli impatti con le imbarcazioni. Il bacino del Mediterraneo rappresenta solo l’1% di tutti i mari della Terra, ma al suo interno avviene il 20% del traffico navale mondiale perciò è ovvio come i cetacei siano sottoposti a pericoli costanti.

Non dimentichiamo le catture accidentali o bycatch mediante attrezzi da pesca poco selettivi (es. reti derivanti o palangari) e l’impigliamento (in inglese entanglement) in reti fantasma o lenze abbandonate. Inoltre, l’inquinamento acustico prodotto da attività/operazioni civili e militari che può disorientare e spaventare i cetacei obbligandoli a risalire troppo velocemente con il rischio di embolie oppure può creare disturbi all’ecolocalizzazione cioè alla capacità che hanno alcuni cetacei di orientarsi emettendo suoni e interpretando gli echi di ritorno, un po’ come fanno i pipistrelli”.

Incidenti frequenti

Un quadro che spaventa, e non perché un fenomeno come lo spiaggiamento non possa avvenire per cause naturali (“I cetacei, infatti, possono spiaggiarsi o trovarsi in difficoltà anche per cause naturali, come predazione, tossine provenienti da fioriture algali, inseguimento delle prede sotto costa e vecchiaia”), ma soprattutto per una dimostrazione quantomai chiara di un’eccessiva noncuranza della salute marina. “Nell’arco della mia esperienza, mi sono imbattuto in diversi esemplari di cetacei che riportavano i segni di interazioni umane. Come reti da pesca o impatti con natanti. Solo per citare i più recenti, nel luglio 2016 a Marina di Ardea (Roma) si spiaggiò il solo cranio di un giovane capodoglio completamente avvolto da una spadara il cui uso è vietato dal 2002. Nel gennaio 2019, un cucciolo di balenottera comune venne trovato morto in prossimità del Porto di Civitavecchia probabilmente ucciso dall’impatto con un traghetto. Anche le segnalazioni di capodogli morti alla deriva sono purtroppo frequenti”.

Attività sul campo

Fenomeni che non riguardano solo cetacei di grandi dimensioni, ma anche altre creature di cui forse non si parla abbastanza. “Anche delfinidi di piccola taglia come una stenella striata trovata morta a Marina di Ardea nel novembre 2019; era legata a un FAD (Fishing aggregating device), un attrezzo da pesca vietato che serve per attirare e concentrare il pesce sotto di esso… Ricordo che i cetacei hanno i polmoni e respirano aria attraverso lo sfiatatoio, il foro che si trova sull’apice della loro testa. Proprio per questo motivo, essi sono soggetti anche all’inquinamento atmosferico”. La corretta interazione uomo-animale, quindi, è valida sulla terraferma quanto nell’acqua, in zone protette quanto nel cosiddetto “stato brado”. “Ogni evento di spiaggiamento che si verifica in Italia è monitorato e studiato dagli esperti e dagli enti competenti come le AASSLL e gli istituti zooprofilattici sperimentali (IIZZSS). Qui nel Lazio, per esempio, come Centro Studi Cetacei Onlus collaboriamo da tempo con l’Istituto Zooprofilattico Lazio e Toscana che da anni è coinvolto nella diagnostica degli animali marini spiaggiati e fa parte di una rete nazionale che racchiude gli altri IIZZSS italiani”.

Come a dire che il monitoraggio degli esperti è una costante. E che al resto dei fruitori del mare si richiede di fare la propria parte. Forse, per far questo, non è per forza necessario saper distinguere una balena da una balenottera.

Damiano Mattana: