Un buon risultato, ottenuto forse un po’ a sorpresa, e tante aspettative per un movimento, quello del calcio femminile, di sicuro in ascesa ma che ancora fa a spallate nell’ardua strada del professionismo autentico. Perché, anche se ottenuto lo status professionistico, il margine tra il pallone e il resto degli sport praticati dalle donne (quindi tutti gli altri) è ancora abissale. Non solo per un piano di investimenti che, molto spesso, non tiene conto di variabili che, per altri Paesi, sono scontate. Ma anche (e forse soprattutto) per un aspetto culturale che va conciliato con un investimento ragionato, al momento distante anni luce dall’idea di business tradizionalmente associato al mondo del calcio. Il risultato è uno sport che, in Italia, fatica a scrollarsi di dosso l’etichetta della disciplina di nicchia. Interris.it ne ha parlato con Giancarlo Padovan, giornalista ed ex presidente della Divisione Calcio Femminile della Lega Nazionale Dilettanti.
Da sport di nicchia a disciplina professionistica: la direzione intrapresa dal calcio femminile è quella giusta?
“Il passaggio al professionismo è più formale che sostanziale. Ma l’evoluzione è ancora in divenire. In primis perché affidata solo a grandi club. Fatica a star dietro: ingaggi e costi sono lievitati ma non gli introiti. Allo stadio ci vanno più persone ma non tante quante ne servirebbero, perché il prodotto televisivo non è venduto a cifre confortanti per le società. C’è tutto da fare. E, se a questo aggiungiamo che dal punto di vista calcistico, le calciatrici non sono più brave che negli anni Duemila o Novanta, abbiamo una rappresentazione parziale del calcio femminile”.
Il buon risultato del 2019 è stato episodico o è parte di un percorso?
“Abbiamo fatto un grande mondiale nel 2019 ma le nazioni che vi partecipano sono aumentate. Siamo andati per questo, non perché più bravi. In contemporanea, si è avuta la crisi di alcune federazioni come Germania e Svezia. Quindi siamo saliti nella graduatoria ma è un salire ancora molto relativo”.
È un problema di approccio o di tipo culturale?
“Non c’è, nella nostra cultura, l’idea di andare a vedere una partita di calcio femminile come si va a quelle di basket o pallavolo. La cultura della donna che gioca a pallavolo è più diffusa, anche se quella del calcio ha fatto grandi recuperi. Anche se le donne giocano un buon calcio, ci sono differenze di forza, velocità e anche nelle giocate. Chi pensa di andare a vedere il calcio femminile e paragonarlo a quello maschile è fuori strada. Chiaramente, se vediamo la finale di Champions League femminile, il livello tecnico-tattico e comportamentale-agonistico è decisamente superiore al campionato italiano. Un campionato ancora a dieci squadre, senza verve, dove si sa già chi vince. Sia strutturalmente che nel merito del gioco siamo lontani, anche perché le giocatrici degli anni Novanta e Duemila erano nettamente più forti”.
Mancano le praticanti?
“Sì, anche se i buoni risultati di quel Mondiale (2019), ha portato a una sorta di emulazione. Oggi ci sono più bambine che praticano calcio. E c’è anche meno reticenza da parte dei genitori nel portarle. Il pregiudizio però esiste ancora. Inoltre, essendo le praticanti una minoranza, se questa viene depotenziata, demotivata, senza strutture praticabili o si scoraggia per il pregiudizio, è chiaro che l’invaso da cui pescare si riduce. Rispetto agli anni Duemila le praticanti sono aumentate del 30%. Non è poco ma non basta: ci vuole una cultura del professionismo che al momento non abbiamo. L’ingaggio di una giocatrice è milioni di volte inferiore a quello di un calciatore”.
A livello mediatico c’è stato un maggiore interesse. Eppure, la sensazione è che si veda il calcio femminile come un appendice di quello maschile.
“Il maggiore interesse è un dato inconfutabile. Ma, se chi si avvicina al calcio femminile pensa a quello maschile resterà deluso. Quello femminile è un’altra cultura, ha dei vantaggi che il calcio maschile non ha. Non esiste la simulazione, le scorrettezze sono molto inferiori, sia quelle agonistiche che comportamentali. L’atteggiamento è sempre amichevole. Ha dei valori intrinsechi, quelli propri della donna, molto diversi da quelli maschili”.
Alcune federazioni hanno sviluppato una cultura molto più prossima alle atlete. In Australia, ad esempio, è stata pensata un’agevolazione per le calciatrici madri. Sono modelli imitabili?
“Qui siamo lontanissimi da tutto questo. In primis perché la gran parte delle calciatrici non hanno figli. In secondo luogo, la cultura australiana è completamente diversa da quella italiana ma anche da quella europea e mediterranea. Di sicuro bisognerebbe fare in modo che il mondo del calcio femminile fosse aperto e che in questa sorta di apertura ci fosse spazio per le famiglie. Per ora le famiglie vanno a vedere le partite. Questo è un primo passo. Si rendono conto che non possono demonizzare il calcio femminile, soprattutto se non lo conoscono. Però, questa idea di calcio femminile è veramente altra rispetto alla nostra. Sicuramente, i modelli anglosassoni in generale sono quelli più in voga e certamente quelli da seguire”.