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Beirut, prima e dopo la catastrofe: le sabbie mobili del Libano

A un anno dall'esplosione che ha devastato il porto di Beirut, il Libano affonda in una crisi economica e sociale senza fine. Masieri (TdH): "La vita è sempre più difficile"

L’ultima immagine immortalava uno scheletro devastato e fumante, laddove una volta sorgeva il porto di Beirut. L’ultima, perlomeno, fra quelle in grado di prendersi la ribalta internazionale. Una devastazione che capitalizzava un periodo di esasperazione popolare di un Paese, il Libano, stretto nella morsa letale di una doppia crisi, economica e socio-politica. Proteste di piazza, un governo dimissionario e delegittimato dal popolo, forze politiche troppo deboli e sfiduciate per imbastire uno nuovo.

Libano, un quadro desolante

Elementi di un quadro fin troppo desolante per il Paese dei cedri. Le stesse presunte ragioni della catastrofe del porto di Beirut (fra i più importanti del Mediterraneo orientale), legate a sospetti di negligenza, avevano creato le condizioni per una nuova ondata di proteste che, come primo indennizzo, avevano preteso l’addio della classe politica a capo del Paese. La nuova scudisciata del Covid ha fatto il resto: il Libano affonda nelle sabbie mobili della crisi, le famiglie sprofondano nella povertà e i più piccoli subiscono conseguente devastanti. Senza scuola o senza cibo. “La vita – ha spiegato a Interris.it Ilaria Masieri, responsabile dei progetti in Libano di Terre des Hommes – si fa sempre più difficile”.

Beirut
Il luogo dove sorgerà il memoriale delle vittime a Beirut

Ilaria Masieri, ci ritroviamo a un anno di distanza dall’esplosione che, distruggendo il porto di Beirut, ha assestato il colpo di grazia al Libano già devastato da una profonda crisi sociale. Le circostanze sembrano non essere migliorate…
“La situazione purtroppo sta costantemente e drammaticamente peggiorando. L’esplosione al porto di Beirut si inseriva in un contesto già di grande fragilità all’interno del Paese. Una serie di eventi, conseguenti anche all’esplosione, che hanno peggiorato ulteriormente il quadro. La pandemia, certo, ma anche l’assenza di un governo capace di promuovere le riforme necessarie in un contesto di crisi economica. Una crisi che, recentemente, la Banca mondiale ha indicato fra le tre più gravi al mondo dalla metà del 1800. La valuta locale ha proseguito una perdita inesorabile di valore, arrivando ormai tra l’80% e il 90%. Questo ha un impatto gravissimo in un Paese in cui la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici percepisce il proprio stipendio in valuta locale”.

Qual è l’impatto sul tenore di vita della popolazione?
“Si stima che oggi, in Libano, ci siano 2 milioni e 700 mila persone sotto la soglia della povertà. E oltre l’80% dei bambini e delle bambine sta peggio rispetto al 2020 soprattutto dal punto di vista educativo. E questo sia per l’impatto pandemico che economico, specie nel comparto pubblico che, ora, dovrà assorbire un gran numero di studenti che tradizionalmente frequentava le scuole private. Inoltre, almeno il 30% dei bambini salta almeno un pasto al giorno. Infine, il peggioramento è evidente anche dal punto di vista della protezione. L’impoverimento spinge i genitori ad adottare misure di risposta negative”.

Ad esempio?
“Alla fine del 2020, abbiamo registrato un aumento di oltre il 40% del lavoro minorile e del 9% delle spose bambine. Questo significa che i minori non soltanto subiscono l’impoverimento delle famiglie e la diminuzione di servizi e cure, anche mediche, ma questo si combina con l’interruzione dell’istruzione e l’impiego in forme di lavoro. Naturalmente umilianti, degradanti, malpagate e in nero. Il nostro lavoro e degli altri operatori umanitari è importante perché portiamo un aiuto immediato per rispondere ai bisogni primari. Ma questo si inserisce in un contesto che si deteriora costantemente e quindi anche l’impatto degli aiuti umanitari purtroppo ne risente.

Un contesto che risente anche dell’emergenza dei rifugiati…
“In Libano ci sono ancora un milione e mezzo di rifugiati siriani, particolarmente vulnerabili. Per i bambini siriani è stato estremamente difficile organizzare la didattica a distanza, completamente demandata agli attori umanitari perché il sistema scolastico pubblico non l’ha prevista per loro. Quindi anche l’abbandono scolastico è stato anche più pesante. Assistiamo a una ‘fuga dei cervelli’: chi ha un titolo di studio o competenze lascia il Paese, mettendo a rischio i pochi servizi essenziali sopravvissuti a oggi. Manca la benzina che alimenta i generatori, ci sono code lunghissime per il pane, mancano le medicine e non sappiamo se le scuole riapriranno a settembre. Sappiamo che almeno 170 mila bambini e bambine che migreranno nelle scuole pubbliche senza che questa abbia la capacità per assorbirle. E Beirut, in qualche modo centro commerciale e di servizi, ha vissuto una gravissima devastazione da cui non si è ancora risollevata. L’assenza di una classe dirigente impedisce riforme necessarie. La mancanza di benzina, ad esempio, impedisce anche di avere la corrente elettrica, considerando che non esiste una rete pubblica”.

Questo quanto arriva a incidere sul ruolo delle organizzazioni umanitarie?
“All’interno del nostro staff riscontriamo un disagio e una difficoltà a trovare le energie per rispondere proattivamente a un’emergenza sempre più marcata. Le difficoltà sono talmente evidenti e a tappeto in tutto il Paese che le stesse persone che cercano di aiutare gli altri e mettere a disposizione le proprie competenze, uscendo dall’ufficio si ritrovano a fare file di ore per pane, benzina, medicine e tutti i bisogni primari. La vita è veramente tanto difficile”.

L’esplosione è stata il vertice dell’iceberg. Si era parlato di un intervento da parte di Paesi esteri, anche Israele si fece avanti. La situazione ha chiaramente reso tutto più complicato, fra recrudescenze del virus e un governo dimissionario da un anno: l’aiuto da fuori ne è stato limitato?
“Assolutamente. Sono state mobilitate risorse ma manca un approccio organico, che deve essere preso dal governo con le Nazioni Unite in coordinamento. Ma, in assenza di un interlocutore politico credibile, e in attesa di possibili elezioni della prossima primavera, è difficile, se non impossibile, avere una risposta organica con strategie sul medio lungo periodo. Il sistema bancario è al collasso e senza strategie di sostentamento. E così il sistema sanitario, educativo e di afflusso di beni. In questo contesto, l presenza di attori umanitari diventa fondamentale nella risposta immediata ai bisogni. Manca però uno sguardo d’insieme rispetto al futuro del Paese, in un quadro generale, quello del Medio Oriente, di estrema fragilità”.

C’è un piano internazionale per tamponare l’emergenza economica oppure la fase di crisi vissuta ha reso impossibile una strategia mirata?
“I nostri progetti sono importanti ma devono essere affiancati da una volontà politica di migliorare la situazione delle popolazioni. Altrimenti rispondono ai bisogni nell’immediato ma non possono risolvere il problema, perché non è il nostro ruolo. Il sistema delle Nazioni Unite funziona nella misura in cui c’è un coordinamento a livello nazionale per settori. Le strategie sono su base annuale e alimentate con nuove informazioni e dati. Sicuramente ci sono piani nazionali ai quali tutte le ong asseriscono per dare una risposta coordinata e indirizzare le risorse verso aree prioritarie. Anche da questo punto di vista, però, è tutto molto difficile. Un anno fa la lira libanese valeva 5 mila sul dollaro e adesso è fra i 19 e i 20 mila. E’ molto difficile fare previsioni, perché il costo dei beni varia in maniera significativa e imprevedibile. Devo dire però che il mondo della cooperazione internazionale ha dei meccanismi solidi di coordinamento”.

Beirut

Avevamo parlato di un impatto devastante sui più piccoli durante il periodo delle proteste, con tutte le conseguenze sociali della crisi. Oggi com’è la situazione? In questo momento sembra che i bambini attraversino una fase di crisi addirittura doppia: la vostra relazione con le famiglie assistite ne risente?
“Fortunatamente la relazione con le comunità è assolutamente positiva. Siamo in Libano da quindici anni, il supporto è pensato e sviluppato su molti livelli, psicologico e anche individualizzato. Uno psicosociale, attraverso attività e restituzione dei luoghi alla comunità. Recentemente abbiamo re-inaugurato un parco pubblico in uno dei quartieri più devastati dall’esplosione, ricostruito anche grazie a iniziative di co-progettazione con bambini e adolescenti. Ci sono poi interventi educativi sia all’interno delle scuole che all’esterno, attraverso percorsi di educazioni propedeutici al reinserimento a scuola. Abbiamo poi inserito nell’ultimo anno delle iniziative di supporto concreto alle famiglie: incentivi economici legati alla frequenza scolastica dei bambini. Le strategie dei matrimoni precoci sono risposte disperate delle famiglie. E’ necessario quindi sostenere i nuclei familiari che non riescono ad avere sufficienti risorse per rispondere ai bisogni essenziali”.

Una situazione che comporta anche scelte drammatiche…
“Si trovano a dover scegliere fra mettere qualcosa in tavola o mandare i figli a scuola. E’ una scelta tragica che palesa traumi evidenti anche fra gli adulti. Accade spesso fra famiglie di rifugiati molto numerose, magari con persone anziane o malati cronici. E’ fondamentale avere uno sguardo complessivo alla situazione delle famiglie. Per aiutare i bambini è necessario aiutare anche i genitori. La relazione con le comunità continua a essere uno degli aspetti più belli”.

La vostra presenza da lungo tempo ha generato anche un rapporto di fiducia…
“Assolutamente. Abbiamo dei programmi quadro che si adattano alle singole comunità, poiché ognuna ha bisogni diversi ed è fondamentale ascoltarli. Per far questo disponiamo di una decina di espatriati e circa 140 persone di staff locale. E lì operiamo anche attraverso molte organizzazioni locali, una dozzina circa. A loro volta mettono a disposizione il loro staff, perché c’è bisogno di tante risorse umane, compatibilmente con la pandemia”.

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