Fra i bambini, le
vittime indirette della guerra sono in numero di gran lunga superiore rispetto a quelle causate direttamente dalle
armi. “Molti dei
conflitti più sanguinosi e duraturi si svolgono in
paesi poveri e indebitati. Sconvolgendo equilibri già precari e amplificando a dismisura le
sofferenze per le
fasce più vulnerabili della popolazione, a cominciare dall’infanzia- documenta l’Unicef-. La guerra in Somalia, ad esempio,
ha fatto
salire il tasso di mortalità infantile in alcune regioni fino a 25 volte rispetto al già elevato livello del periodo prebellico. In occasione di un conflitto
si riduce o si annulla del tutto la produzione agricola. E le linee di comunicazione vengono tagliate. Impedendo il trasporto delle derrate alimentari e si instaura un
circuito clandestino di scambi che penalizza i più poveri. E coloro (bambini, donne in gravidanza) che necessitano di un apporto nutritivo costante”.
Sos epidemie
Può accadere, secondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, che il governo utilizzi gli aiuti umanitari in maniera tale da discriminare le zone in cui è più forte l’opposizione. Questa, infatti, era una delle tattiche abituali messe in atto dal dittatore etiopico Menghistu nei confronti delle minoranze del Tigrai e dell’Eritrea. O più semplicemente che le esigenze delle forze armate siano privilegiate a scapito di quelle della popolazione civile. Non appena iniziano a ridursi gli approvvigionamenti, le principali cause della mortalità infantile (dissenteria, infezioni respiratorie, epidemie di morbillo e colera, malaria) trovano nel deperimento fisico un formidabile terreno di coltura. Mentre malattie fino ad allora tenute sotto controllo, come la tubercolosi o la poliomielite, possono tornare a mietere vittime.
Bambini vittime
Gli effetti invisibili che la guerra provoca nei bambini
non sono affatto meno gravi delle privazioni materiali. Percependo l’insicurezza e il terrore degli adulti, e intuendo di non poter essere adeguatamente protetti da parte loro, i bambini –
soprattutto i più piccoli – sviluppano ansie e fobie di ogni genere. La psiche di un bambino può subire ferite incancellabili. A seguito di esperienze traumatiche quali un
bombardamento. La fuga in preda al panico. O la visione di azioni cruente a danno dei propri familiari. Un
sondaggio condotto nel 1993 dall’Unicef tra i bambini di Sarajevo ha rivelato che il 97% di loro aveva vissuto da vicino l’esperienza di un bombardamento,
il 55% era stato preso di mira da un cecchino. E due bambini su tre si erano trovati almeno una volta in una situazione in cui avevano pensato di poter morire. Un’analoga
indagine realizzata in Angola ha reso noto che 9 bambini su 10 avevano visto persone uccise. Alcuni conflitti
si protraggono così a lungo (come la trentennale guerra civile dell’Angola, o a quelle pluridecennali di
Libano e Afghanistan) da far scomparire qualsiasi traccia di normalità
nella vita familiare e comunitaria. La popolazione civile vive in un clima di continua tensione, fra periodi di tregua o pace apparente e improvvise recrudescenze degli
scontri armati. In questi frangenti, intere generazioni di bambini crescono nell’insicurezza e nel
desiderio di vendetta per le perdite subite nella cerchia delle proprie figure primarie. E, naturalmente, è causa di stress emotivo anche la
permanenza prolungata in campi profughi. Soprattutto per i bambini rimasti orfani o separati dai propri genitori.
Problemi comportamentali
Secondo l’Unicef, dal punto di vista psicologico,
i traumi più ardui da affrontare sono quelli vissuti da quei bambini e ragazzi che partecipano in prima persona a operazioni di guerra. Questi soggetti sviluppano spesso gravi
problemi comportamentali che, sommandosi al senso di colpa per le azioni commesse e alla
fortissima riprovazione sociale nei loro confronti, ne rendono estremamente difficoltoso il pieno recupero e la reintegrazione nella
vita civile. La situazione è aggravata dalla distruzione di ospedali e centri sanitari, che nei conflitti assume il carattere di una
metodica strategia di guerra. Nella guerra civile del Mozambico, fra il 1982 e il 1990,
il 70% dei centri sanitari furono distrutti o saccheggiati. Durante l’interminabile assedio di Sarajevo, il principale ospedale della città subì ben 180 bombardamenti. In Cambogia,
al termine del regime terroristico dei Khmer Rossi, soltanto 30 medici erano rimasti in vita in tutto il paese. Il richiamo alle armi dei maschi adulti lascia le famiglie in uno
stato di grave insicurezza, sia dal punto di vista della protezione personale che da quello dell’
autosufficienza economica. Una situazione caratteristica dei paesi in guerra è il moltiplicarsi di nuclei familiari monoparentali, dove donne rimaste sole
a causa dell’arruolamento, della prigionia o della morte del marito si trovano a dover gestire famiglie anche molto numerose con pochissimi
mezzi finanziari.
In tempo di guerra
La drastica riduzione del reddito a disposizione della famiglia
si traduce quasi immediatamente in un peggioramento delle condizioni di vita dei più piccoli. All’apice dei conflitti in Liberia e in Somalia, la malnutrizione moderata o acuta
riguardava più della metà della popolazione infantile al di sotto dei 5 anni, e praticamente tutti i neonati erano gravemente sottopeso. Spinti dalle ristrettezze economiche,
moltissimi bambini e ragazzi devono ingegnarsi per racimolare il denaro necessario alla sopravvivenza del nucleo familiare. In tempo di guerra,
fenomeni come l’abbandono scolastico, il lavoro minorile e la prostituzione adolescenziale possono assumere dimensioni vastissime. Nei casi più estremi, la fame e il terrore possono
prendere il sopravvento persino sul sentimento di protezione che ogni genitore nutre nei confronti dei propri figli. In Myanmar (l’ex Birmania), i
genitori offrono volontariamente i loro bambini ai guerriglieri dell’esercito Karen perché i ribelli
garantiscono loro due pasti al giorno e dei vestiti. “In Angola, sono stati documentati dagli operatori umanitari casi di adulti che hanno sottratto ai loro figli le razioni di cibo appena ricevute ai
centri di distribuzione“, attesta l’
Unicef. A volte sono gli stessi genitori a spingere le giovani figlie a prostituirsi, per assicurare a sé e a loro maggiore tutela da parte dei militari. Infine, la
prostituzione minorile attecchisce anche nei campi profughi male sorvegliati. E purtroppo sono stati documentati diversi casi di prostituzione di ragazze dai 12 ai 18 anni
in coincidenza dell’arrivo di truppe impegnate in operazioni di peace-keeping (ad esempio, con l’operazione
Unomoz in Mozambico).
Testimonianza
La storia insomma si ripete e vede l’infanzia nel mirino. Oggi come un secolo fa. Un concentrato di tecnica e grazia, di levità e ricercato disequilibrio, di pathos e muta eloquenza, anche di fronte a una tragedia immane come la Shoah. Questo era Marcel Mangel, in arte Marcel Marceau, artista raffinato e capace di grandi gesti umanitari, impegnato nella Resistenza francese contro il nazismo nel salvataggio di moltissimi bambini ebrei. Come racconta il film “Resistance” di Jonathan Jakubowicz. Per il centenario della nascita del grande mimo di origine ebraico-polacca, l’Università di Firenze si è attivata. Con una iniziativa della storica del teatro, delegata alle Attività di Spettacolo, Teresa Megale. In collaborazione con il Corso di Laurea in Pro.Ge.A.S. e il Teatro Metastasio di Prato. Si è svolta così una giornata di studi al Teatro Magnolfi di Prato. Ad aprire l’evento, con i loro saluti, saranno il presidente della Comunità ebraica di Firenze Enrico Fink, l’assessore alla Cultura di Prato Simone Mangani e il direttore artistico del Teatro Metastasio Massimiliano Civica. I lavori saranno presieduti dai docenti del Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo (Sagas) Maurizio Agamennone (Etnomusicologia) e Teresa Megale (Discipline dello Spettacolo).
Il segno dell’orrore
Alla giornata hanno partecipato teatrologi e storici del teatro esperti di mimo corporeo e dei suoi legami con altre arti sceniche, a cominciare dalla danza. Marco De Marinis, Elena Randi, Francesca Romana Rietti e Patrizia Iovine. La manifestazione si è conclusa con la performance mimica di Fabio Mangolini, attore e regista, formatosi come mimo alla scuola parigina di Marcel Marceau. “A cento anni dalla nascita e a quindici dalla scomparsa di Marcel Marceau – afferma Megale -. L’obiettivo della giornata di studi è stato quello di approfondire le fonti critiche e storiche sul poeta del gesto, in connessione con la rinascita novecentesca del mimo corporeo. E ingrandire il ruolo dei verba visibilia nel solco delle principali teorie e prassi del teatro contemporaneo”. “Con la maschera del clown Bip – continua Megale -, inventata alla fine della seconda guerra mondiale, Marcel Marceau ha trasformato il suo corpo in prodigioso veicolo di comunicazione, in un medium magnetico, con il quale ha ristabilito l’importanza della dimensione espressivo-mimetica. A partire dalla centralità del viso e delle mani, negata dal suo maestro Decroux. E da intellettuale organico ha saputo mettere al servizio degli altri la sua arte e trasformarla in strumento per la difesa dei più piccoli dagli orrori della guerra nazista. Una lezione che in queste tragiche ore, segnate dal conflitto fra Israele e Palestina a seguito dell’attacco di Hamas, risuona fin troppo attuale e fin troppo necessaria”. Marcel Mangel (Strasburgo 1923-Cahors 2007), in arte Marcel Marceau, è stato l’inventore nel 1947 del clown Bip e due anni dopo, nel 1949, il fondatore della prima compagnia di mimo, rilanciando l’arte mimica appresa da Decroux con sensibilità e con stile propri. Durante la Seconda guerra mondiale, l’artista si era distinto per il grande impegno civile nella Resistenza francese contro il nazismo.