Accanto ai bambini di Beirut, a un mese dall’esplosione: “Così leniamo le loro ferite”

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Immagini e suoni non potrebbero essere più nitidi. Appena un mese è trascorso dalla catastrofe del porto di Beirut ma le immagini delle detonazioni, dei ruderi fumanti, della più importante area della città ridotta a un cumulo di macerie informi, continuano a essere ben vive negli occhi del Libano. Un Paese che attraversa l’inferno della crisi, che si è preso la piazza per rimuovere di peso un governo accusato di essere divorato dalla corruzione. Un risultato ottenuto ma solo formalmente, visto che in attesa di un sostituto, il premier dimissionario Hassan Diab continuerà a svolgere la propria funzione. Un Paese che attende e che, nel frattempo, lotta con le scorie della recessione e con i fantasmi del disastro del 4 agosto. Immagini devastanti che scorrono ancora negli occhi dei grandi ma, soprattutto, dei più piccoli di Beirut: “Tanti di loro hanno bisogno di assistenza psicologica – ha spiegato a Interris.it Ilaria Masieri, responsabile dei progetti in Libano di Terre des Hommes -. E’ una situazione difficile in cui anche stabilire una relazione con le famiglie è fondamentale”.

Video © TdH

Dottoressa Masieri, l’esplosione di Beirut ha capitalizzato una situazione di crisi che il Libano viveva da molto tempo. Una somma di fattori che porta a un’emergenza umanitaria di proporzioni immense…
“Il Libano è un Paese in situazione di emergenza da molti anni, per l’afflusso di rifugiati siriani, che si assomma a una crisi economica senza precedenti diventata poi politica. Si sono aggiunte poi la pandemia e l’esplosione del porto di Beirut, che ha colpito tutte le infrastrutture, l’economia del Paese e anche i luoghi del cuore dei libanesi. Si tratta di una zona in cui si va con le famiglie, a guardare il mare… C’è un aspetto simbolico molto potente. Noi non siamo arrivati in Libano con l’esplosione, perché esistevano già bisogni di natura umanitaria, che avevano condotto TdH Italia e i suoi progetti. Abbiamo avuto la ‘fortuna’ di avere già presenti degli staff molto preparati e aver in piedi dei protocolli di supporti psicologici e sociali, attivi già da quindici anni. La situazione trovata è la somma di questi fattori, uno choc così grande sia per le proporzioni dell’evento che per quanto ha vissuto il Paese”.

Nella mente di un bambino le immagini e, in alcuni casi, anche l’aver vissuto un evento simile provoca indubbiamente una forte impressione. Quanta percezione c’è invece, da parte loro, rispetto a una problematica come una crisi economica?
“I bambini arrivavano da un periodo molto difficile. Tantissime persone hanno perso il lavoro, le scuole sono chiuse dall’inizio di marzo e l’interazione con i pari e gli educatori sono stati limitati. Famiglie… Arrivavano da un periodo di difficoltà e impoverimento delle loro famiglie. Un rapporto riguardava mezzo milione di persone senza niente da mangiare. Lo sviluppo del bambino è condizionato da una miriade di fattori funzionale affinché possa crescere in modo sereno: diritti, istruzione, cibo, ecc… Questa situazione è particolarmente traumatica, perché la perdita della casa, dei giochi e del luogo che è stato per mesi quello vissuto, è terribile. L’idea che i genitori non possano proteggerlo dalla distruzione improvvisa della sua casa è terribile. Molti di loro, peraltro, al momento dell’esplosione erano a casa, hanno assistito all’esplosione, alle ferite, alla fuga. E si trovano in questo momento profondamente disorientati e disconnessi dalle loro comunità e dai luoghi a loro familiari. Mostrano in maniera molto più evidente, talvolta, degli adulti, quelle che sono le ferite invisibili. E lo fanno con il sonno, la rabbia, l’isolamento, i disegni, la difficoltà a costruire relazioni di fiducia. Sono esseri umani complessi ma resilienti, hanno risorse ma devono essere accompagnati”.

Come si è mossa Terre des Hommes dopo la tragedia del porto?
“Già dal giorno dopo l’esplosione siamo andati in zona, abbiamo montato tende mobili per attività di tipo ricreativo. E alcune squadre hanno aiutato i volontari a ripulire strade e negozi. Già durante il lockdown raccoglievamo da altre organizzazioni casi di bimbi con problemi socio-psicologici. Questo ha facilitato l’individuazione di famiglie che avevano subito particolari traumi. Abbiamo mobilitato i team e individuato circa 100 bambini con gravi traumi e grosse perdite subite, iniziando un supporto sia individuale che di gruppo”.

Foto © TdH

In Libano eravate però già presenti. E anche prima del disastro di Beirut la vostra opera sul campo era stata importante…
“Stiamo mettendo insieme una risposta strutturata: una prima fase di emergenza con sostegno, sia economico che distributivo (kit igienici, ecc…) alle famiglie più in difficoltà, poi una seconda in cui il supporto diverrà più strutturato, con attività nei centri, laboratori più elaborati e una serie di servizi educativi. 159 scuole hanno subito danni, il sistema scolastico era già al collasso e ci sarà un’enorme ondata di bimbi che passeranno dalle private alle pubbliche. Lavoriamo poi con un partner inglese, un’organizzazione di architetti, per ristrutturare una biblioteca e avere uno spazio sia interno che esterno sicuro e protetto, per svolgere attività ed essere di incontro per la comunità”.

L’ondata di manifestazioni che ha scosso Beirut e altre città del Paese, grandi folle esasperate e tensioni nelle principali strade sono immagini che possono far presa nella mente di un bambino?
“Io credo li abbiano vissuti, sono stati esposti ai discorsi dei genitori, alle tv… Questo clima di instabilità complessivo è stato alimentato dal senso di frustrazione, impoverimento costante. Indipendentemente dalle possibilità delle famiglie di offrire ai figli una vita normale, una crisi finisce per essere vissuta”.

Al netto della grave situazione del Paese, che richiederà un percorso di ripresa lungo e complesso, nell’ambito del vostro operato avete riscontrato qualche risultato incoraggiante?
“In un clima di difficoltà è già molto instaurare una relazione di fiducia e sapere di poter contare su organizzazioni che si mettono a disposizione è già tanto. Anche per questo ci aiutiamo a vicenda con altre organizzazioni. Se TdH incontra una famiglia con bisogno urgente di cure mediche, abbiamo una rete in cui cercare l’organizzazione più adatta, presente in zona. E’ un pronto soccorso psicologico… il vero superamento del trauma richiede almeno alcuni mesi. E poi c’è una percentuale di persone che, di fronte a un trauma, impiega molto per l’elaborazione. I risultati si vedono nei termini della relazione e della risposta al bisogno immediato. Poi ci vuole tempo. In Libano casi aumentati moltissimo, ospedali hanno dovuto rispondere all’emergenza e i protocolli non sono stati sempre rispettati.

Damiano Mattana: