Prima del 7 ottobre era in corso un processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo iniziato con gli accordi di Abramo, i trattati siglati da Stato d’Israele, Emirati arabi, Bahrein, Marocco e Sudan, propedeutico all’avvicinamento diplomatico anche tra israeliani e sauditi. La tela di un quadro la cui cornice è il progetto delle monarchie del Golfo di uscire da un’economia basata sulle fonti di energia fossile e riorientare le strategie commerciali. Il conflitto in corso da oltre tre settimane tra Israele e Hamas porta però instabilità nella regione e rischia di avere ripercussioni più vaste, come un allargamento della guerra con l’apertura di un secondo fronte da parte dei miliziani libanesi di Hezbollah. Il segretario generale del movimento del Paese dei cedri Hassan Nasrallah ha dichiarato, in un discorso pubblico trasmessa in diretta televisiva, che la guerra con Israele è iniziata già l’8 ottobre, che è dovere per gli uomini di Hezbollah “dare tutto”, essere “pronti al sacrificio”, e che quello con Israele è un “duello che si vince ai punti”. Inoltre sempre dalla penisola araba, dal lato che però non affaccia sul Golfo, il gruppo armato yemenita degli Houthi, appartenente alla galassia filoiraniana, attacca Israele con razzi e droni. Per comprendere allora qual è il punto di vista dei Paesi della penisola araba sulla situazione attuale e quali potrebbero essere altri attori in campo, Interris.it ha intervistato la studiosa Eleonora Ardemagni, ricercatrice associata dell’Area Medio Oriente e Nord Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).
L’intervista
Qual è la posizione degli Stati del Golfo?
“Le monarchie del Golfo hanno un forte interesse alla de-escalation e al contenimento geografico del conflitto tra Israele e Hamas, perché a loro serve un contesto regionale stabile, dato che sono impegnate a diversificare le proprie economie per uscire dalla dipendenza da petrolio e gas. In questo momento chiedono il cessate-il-fuoco a Gaza e hanno votato la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite presentata dal Regno di Giordania per una tregua umanitaria immediata, nonostante il voto contrario degli Stati Uniti di fronte alla mancanza di un’esplicita condanna di Hamas nel testo. Le monarchie della penisola araba hanno posizioni differenti rispetto a questa organizzazione. Il Qatar è il primo finanziatore della Striscia di Gaza, ha rapporti consolidati con Hamas, lo scorso 7 ottobre con un comunicato ha condannato il governo israeliano considerandolo l’unico responsabile dell’escalation e ha tenuto aperto un canale per le trattative sugli ostaggi. Emirati arabi e Bahrein invece ritengono Hamas responsabile di quanto sta succedendo, con il secondo che si è recato a Ramallah, in Cisgiordania per incontrare il presidente palestinese Abu Mazen. L’Arabia saudita cerca una posizione di bilanciamento. I sauditi stavano normalizzando i rapporti con Israele e adesso provano a riposizionarsi, non hanno interrotto il negoziato ma lo hanno congelato, e hanno provato ad aprire una linea di dialogo con l’Autorità nazionale palestinese”.
Le parole del leader di Hezbollah Nasrallah fanno pensare a un ampliamento del conflitto?
“Guardando all’ipotesi di escalation regionale, il fronte del nord con il Libano rimane quello più rischioso, data anche la forza militare e l’arsenale di Hezbollah. Il gruppo libanese ha una capacità di combattimento e un arsenale militare superiore a quello palestinese e nel tempo è diventato una sorta di mentore per le altre milizie filoiraniane nella regione, come i ribelli Houthi in Yemen, a cui fornisce addestramento e coordinamento. Tra l’altro, l’atteso discorso del leader Nasrallah ha mantenuto tutte le ipotesi sul tavolo: un modo per rinvigorire la retorica della ‘resistenza’ guadagnando però tempo e ributtando la palla della decisione politica nel campo di Israele e Usa”.
Ci sono stati lanci di missili su Israele da parte della milizia sciita yemenita. Gli Houthi si preparano a un intervento diretto?
“In questa fase agiscono come attori di disturbo nel conflitto tenendo sotto pressione Israele con lanci di razzi e droni, dal sud del Mar Rosso verso il nord. Non credo siano interessati a fare di più, ma se Hezbollah aprisse il fronte settentrionale questo potrebbe spingerli a essere più attivi”.
Qual è il loro legame con l’organizzazione libanese?
“Si sono avvicinati all’Iran quando è iniziato l’intervento militare saudita contro i ribelli per ripristinare il governo in Yemen nel 2015 e si sono integrati nella galassia di milizie filoiraniane nella regione. Hezbollah gli ha inviato sostegni per accrescere la capacità militare e li aiuta ad assemblare armi e droni”.
Cosa dobbiamo aspettarci dall’Iran?
“Al momento non penso che Teheran sia interessata a entrare direttamente nel conflitto, sa di non poter vincere una guerra simmetrica convenzionale contro le potenze regionali e contro gli Stati Uniti. Lo è però alle azioni di disturbo asimmetriche che la sua rete può portare agli Usa in quell’area. Nonostante un’ambiguità di fondo nelle sue dichiarazioni, ritengo che questa rimanga l’opzione più probabile per l’utilizzo delle sue milizie”.