Secondo una stima della Global Plastic Action Partnership (Gpap) ogni anno finiscono nei nostri mari e negli oceani circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica. La maggior parte riguarda i prodotti monouso. Ma per quanto tempo questi rifiuti rimangono a inquinare i nostri mari? E dopo quanto tempo viene restituito alla terraferma? In base ai ritrovamenti di Enzo Suma, fondatore di Millenari di Puglia, una realtà salentina impegnata a valorizzare il territorio attraverso escursioni guidate, educazione ambientale e volontariato naturalistico, la plastica resta in mare, per poi tornare a riva anche più di sessant’anni.
La raccolta dei rifiuti
Intervistato da Interris.it, Enzo Suma, fondatore del museo Archeoplastica che da oltre 10 anni lavora come guida naturalistica ad Ostuni (Br), racconta come è nata l’idea di raccogliere, catalogare e esporre in una mostra online i “reperti” in plastica che il mare ci restituisce. “Ho sempre raccolta la plastica dalle spiagge, io il mare lo vivo sempre, anche in inverno. Dal 2008 ho iniziato ad organizzare queste campagne di pulizia, ma non c’era la risposta di questi ultimi anni – racconta -. Non avevo mai fatto caso a quei rifiuti vecchissimi. Quattro o cinque anni fa, ho trovato un flacone di una schiuma abbronzante, si leggeva ancora chiaramente il prezzo: poco più di 900 lire. E’ così che mi è scattata la ‘mania’ di controllare ogni cosa raccogliessi”.
L’idea del museo “Archeoplastica”
Sfruttare i rifiuti spiaggiati – che hanno anche più di cinquant’anni – per portare l’osservatore a riflettere da un’altra prospettiva sul problema dell’inquinamento da plastica nel mare. E’ questo l’obiettivo di fondo del museo virtuale ideato da Enzo, grazie al supporto di tante persone amiche che in questi anni lo hanno sostenuto ed aiutato. “Ho pensato di raccogliere abbastanza materiale e poi organizzare delle mostre, anche nelle scuole – spiega -. Il progetto ha preso vita abbastanza velocemente, siamo riusciti in un anno ad aprire ‘Archeoplastica‘”.
Il mistero del gobbo in frac
La guida naturalistica spiega che gli oggetti che trova più frequentemente sono flaconi in plastica. “Niente di particolarmente strano, ma di alcuni non abbiamo ancora capito a cosa potessero servire”. Uno di questi è il “gobbo”: un flacone a forma di personaggio con la gobba, vestito in frac. Ma cosa ci fosse al suo interno è stato per un lungo periodo un mistero. Grazie all’aiuto di un’amica è riuscito a svelare l’arcano: un collezionista francese aveva pubblicato un post per vendere un gobbo di plastica color rosso, datandolo al 1960 e classificandolo come Soaky Bubble, ossia un bagnoschiuma molto diffuso negli anni ’60. Un’altra ragazza gli invia delle foto che ritraggono un oggetto molto simile, di colore giallo: l’unica differenza sta nel tappo. Sembrerebbe un salvadanaio. Alla fine dei conti, a cosa sia servito il flacone a forma di gobbo resta ancora un mistero.
Il pallone di Italia ’90
“Uno dei rifiuti che ho trovato è il pallone dei mondiali del ’90. L’ho riconosciuto subito, il logo è inconfondibile, mi ha portato alla mente un sacco di ricordi: Roberto Baggio, Schillaci – racconta Enzo -. Questo forse è un po’ il cuore del progetto: è una narrazione diversa che però permette alle persone di riflettere sul problema. Questo pallone è un rifiuto che riesci a collocare perfettamente nel tempo e viene da pensare: dopo tutto questo tempo ed è ancora intero“.
L’interesse delle persone
Le foto pubblicate sul sito, sui social o i reperti esposti nelle mostre – Archeoplastica ne ha realizzate diverse, attualmente alcuni pezzi sono all’interno della mostra “Oceani ultima frontiera” di National Geographic al Palazzo blu di Pisa – suscitano reazioni differenti nella popolazioni. Ad esempio, i giovani sono più attratti dai giocattoli, le persone più adulte invece si concentrano di più sui flaconi “storici”. “Ho notato questo: gli osservatori mostrano un po’ di nostalgia creata dai ricordi che questi reperti originano. Ma questa è l’esca per poi portare a riflettere sulla problematica: i flaconi o i giocattoli che sono stati raccolti sono quasi integri, i pezzetti che non ci sono più si sono trasformati in microplastiche che inquinano i nostri mari”.
La finalità etica
Enzo, concludendo l’intervista, ha voluto sottolineare che il progetto Archeoplastica non è nato con la volontà di accusare e denigrare le aziende produttrici dei prodotti rinvenuti in mare e poi utilizzati nel museo virtuale, né sussiste alcuna volontà di agganciamento ai marchi stessi. “Aprendo il sito si apre un disclaimer che spiega proprio questo concetto – ribadisce Enzo -. Archeoplastica ha la sola finalità etica di sensibilizzare sul tema dell’inquinamento dei mari determinato dall’utilizzo della plastica e, nello specifico, della scorretta gestione del fine vita della stessa. I marchi citati sono riportati al solo fine di dimostrare la datazione dei rifiuti rinvenuti“.
Un piccolo gesto che vale tanto
Riflettere su come le nostre azioni quotidiane impattano sullo stato di salute dei nostri mari, più in generale di tutto l’ambiente, è uno sforzo che dobbiamo a iniziare a fare con molta serietà. Non servono gesti eclatanti, basterebbe che ognuno di noi mettesse in pratica delle piccole azioni ma che in realtà hanno un grandissimo valore: iniziamo a riciclare i rifiuti con più attenzione, facciamo attenzione a dare un giusto valore a ciò che compriamo, scegliamo di non utilizzare il monouso. Prendiamo consapevolezza che siamo noi gli artefici dell’inquinamento che sta distruggendo il nostro pianeta e, iniziamo a cambiare le nostre abitudini per lasciare un mondo più sano alle future generazioni.