Nove anni da Papa-artigiano di pace. In campo ora per fermare la strage in Ucraina. “Per fare la pace ci vuole coraggio. Molto di più che per fare la guerra– insegna Francesco-. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro. Sì al dialogo e no alla violenza. Sì al negoziato e no alle ostilità. Sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni. Sì alla sincerità e no alla doppiezza”. Il 13 marzo 2013 viene eletto papa il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio che prende il nome di Francesco. Nono anniversario di guerra per un pontificato sempre in prima linea a difesa della pace. “Mai la guerra! pensate soprattutto ai bambini. Ai quali si toglie la speranza di una vita degna. Bambini morti, feriti, orfani. Bambini che hanno come giocattoli residui bellici. In nome di Dio fermatevi!”. Papa Francesco in un tweet chiede di pregare per l’Ucraina. Il messaggio è stato diffuso ieri Anche in russo e in ucraino. Oltre che nelle nove lingue ufficiali dell’account del Papa.
Papa per la pace
“La guerra è una pazzia. Bisogna fermarla“, afferma il segretario di Stato. Il cardinale Pietro Parolin rilancia ai media vaticani l’appello papale contro il conflitto nel cuore dell’Europa. E aggiunge: “Bisogna avere il cuore di pietra per restare impassibili. E per permettere che questo scempio continui. Che continuino a scorrere fiumi di sangue e lacrime“. Con il riconoscimento di un fallimento epocale. “Non siamo stati capaci di costruire un nuovo sistema di convivenza fra le nazioni. Dopo la caduta del Muro di Berlino”. Un sistema che “andasse al di là delle alleanze militari. O delle convenienze economiche”. La guerra in corso in Ucraina, “rende evidente questa sconfitta“. Papa Francesco, quindi, richiama la centralità della dimensione spirituale. Perché “sa preghiera è viva, “’cardina dentro’. Ravviva il fuoco della missione. Riaccende la gioia. Provoca continuamente a lasciarci inquietare dal grido sofferente del mondo. Quindi “chiediamoci come stiamo portando nella preghiera la guerra in corso“. E “pensiamo alla preghiera di San Filippo Neri, che gli dilatava il cuore. E gli faceva aprire le porte ai ragazzi di strada. O a Sant’Isidoro, che pregava nei campi. E portava il lavoro agricolo nella preghiera”.
Vocazione al dialogo
Tutto il pontificato di Francesco è una testimonianza di pace. Un incessante inno al dialogo. Dialogare, sottolinea Jorge Mario Bergoglio, significa ascoltarsi. Confrontarsi. Accordarsi. Camminare insieme. Favorire tutto questo tra le generazioni vuol dire dissodare il terreno duro e sterile del conflitto e dello scarto. Per coltivarvi i semi di una pace duratura e condivisa”. La Chiesa deve dare l’esempio. “Non stanchiamoci di chiedere la forza di costruire e custodire la comunione“, raccomanda il Pontefice. Un accorato richiamo ad “essere lievito di fraternità per il mondo”. A non essere “solisti in cerca di ascolto. Ma fratelli disposti in coro“. Ogni dialogo sincero non è privo di una “giusta e positiva dialettica”. Però esige sempre una fiducia di base tra gli interlocutori. Senza “ripiegarsi su sé stessi”. Altrimenti nella società prevale la “mancanza di un’idea condivisa di futuro“. Malgrado le tante “testimonianze generose di compassione. Di condivisione. Di solidarietà“. Ma il raggiungimento della pace non è impresa semplice. A causa della forte influenza del modello economico vigente. Che in larga misura è l’unico a decidere la direzione della maggior parte degli investimenti mondiali.
Tratto di strada
La pace testimoniata da Francesco è molto più dell’assenza di guerra. E’ una conversione profonda. Una “rivoluzione copernicana” che nasce da una pacificazione interiore. “Quando proviamo amarezze e delusioni. Quando ci sentiamo sminuiti o incompresi. Non perdiamoci in rimpianti e nostalgie– raccomanda Jorge Mario Bergoglio-. Sono tentazioni che paralizzano il cammino. Sentieri che non
portano da nessuna parte. Prendiamo invece in mano la nostra vita a partire dalla grazia. E accogliamo il regalo di vivere ogni giorno come un tratto di strada verso la meta“. La guerra, invece, è business di morte e devastazione. “Il denaro spesso è visto come il simbolo di un sistema che amplifica il nostro egoismo. E devia dalla crescita spirituale- sottolinea Susi Snyder. Coordinatrice del progetto internazionale “Don’t bank on the bomb”. La più concreta manifestazione di un’economia che non contribuisce alla pace è il comparto dell’industria bellica. In un anno le spese militari mondiali hanno raggiunto la cifra di 2 trilioni di dollari. Dei quali 72-73 miliardi per lo sviluppo di armi nucleari. Queste cifre sorprendono se si pensa che ormai è universale lo stigma contro questi strumenti di devastazione nel breve e nel lungo periodo. “Sono i simboli di un’economia che finanzia guerra e morte invece della pace- precisa Snyder-. Sono contro le persone, l’ambiente e il futuro“.