Mentre il Coronavirus incombeva minaccioso e mortifero sull’Italia, la lena caritatevole della solidarietà è deflagrata nella sua forza unica. La morte e la malattia hanno prodotto una voglia di vita inesauribile, la stessa che “vedo nei bambini affetti da leucemia, un attimo sono tristi e subito dopo corrono gioiosi. Sono la nostra forza” racconta ad Interris.it Santina Proietti, presidente dell’Associazione Onlus Alcli Giorgio e Silvia (associazione per la lotta contro le leucemie dell’infanzia).
Che attività svolgete come Associazione?
“L’Alcli nasce per i bambini malati di leucemia il 14 maggio del 1987. Quel giorno presso la clinica pediatrica del Policlinico Umberto I, i genitori di Giorgio e Silvia, due bimbi malati che purtroppo non hanno vinto la loro battaglia, diedero vita a questa realtà. L’associazione è stata fondata dai genitori e dai medici che facevano parte dell’équipe della clinica pediatrica, nata per rispondere alle esigenze di un centro che si occupava dei bambini malati di leucemia. Inizialmente, ha mosso i primi passi con l’intento di sostenere le famiglie. Ci siamo, però, trovati immediatamente a rispondere ad altre incombenze del reparto: dal sostegno psicologico siamo arrivati al supporto con strumenti medicali per far fronte alle necessità del reparto”.
Qual è un ricordo che nella sua esperienza l’ha particolarmente colpita?
“Ho incontrato molti bambini. Ancora oggi ne parlo con molta emozione quando penso ad ognuno di loro. Ti entrano nel cuore. Il bambino malato è qualcosa che non si riesce, a livello umano, a comprendere ed accettare. È stata la loro forza a spingermi ad andare avanti. Un bimbo che sembrava stare giù e non riprendersi, un attimo dopo era già in piedi, correva e saltava. Questa forza e questo coraggio mi hanno spinto a non mollare anche se in quel momento di sofferenza per il bambino avrei forse preferito mettermi da parte. La loro gioia contagiosa ha permesso che questa associazione viva da 32 anni, animata da moltissime persone. Da soli non si può fare nulla. Bisogna essere insieme, uniti. C’è bisogno di una rete che accorra in soccorso quando l’altro è fragile. Questa è la linfa delle associazioni: non c’è l’io, c’è il noi”.
Perché le case di accoglienza che mettete a disposizione sono così importanti?
“L’associazione, subito dopo la fondazione, si è trasferita da Roma a Rieti al fine di rendere più semplice la gestione di una realtà che era nata da pochi individui ma che in poco tempo è cresciuta molto fino ad estendersi in tutto il Lazio. Volendo collaborare con la struttura dell’Ospedale di Rieti si è pensato di costruire una casa di accoglienza perché il centro di Radio terapia di Rieti è un polo di eccellenza dove vengono a curarsi diverse persone che vivono in altre regioni. Poco prima del 2000, l’associazione ha esteso il suo statuto a tutte le patologie onco-ematologiche sia per bambini che per adulti. In questa casa di accoglienza c’è anche la sede dell’associazione. Una sede che nasce alle spalle dell’ospedale. Una scelta vincente perché quando accompagnavamo i malati in altre città, dove dovevano sostare per lunghi periodi erano costretti a rivolgersi ad alberghi spesso costosi e anche inaccessibili per chi già ha problemi nell’affrontare la malattia e le ristrettezze economiche. Quindi abbiamo dato vita a questa casa”.
Durante il lockdown, quali attività avete portato avanti?
“Abbiamo interrotto soltanto il servizio di trasporto che comunque è uno dei tanti servizi che l’associazione offre gratuitamente ai malati e alle loro famiglie. Oltre all’accoglienza presso la casa, c’è un servizio di supporto anche in ospedale. Il trasporto è stato sospeso perché i nostri volontari sono persone per lo più in pensione, spesso oltre i 65 anni. Ma siamo riusciti a trovare una soluzione: ci siamo rivolti ad altre associazioni che erano attrezzate. Quindi per i malati e le loro famiglie il servizio è sempre stato attivo e gratuito. E altre attività, che il Coronavirus aveva costretto a interrompere, ora sono già riprese. Il contatto tra i volontari e i pazienti non si è mai spezzato”.
Il progetto Alessandra in cosa consiste?
“Il progetto Alessandra consiste nel fornire delle parrucche a quello donne che hanno perso i capelli a seguito della chemio. Un progetto che abbiamo dovuto modificare durante il lockdown perché le donne non potevano più venire nel centro dell’associazione, bensì ci siamo organizzati spedendo le foto delle parrucche alle signore che ne facevano richiesta. Così abbiamo potuto spedirle loro. Una modalità diversa che ci ha permesso di continuare. Certo, l’assenza e la mancanza del contatto si sono percepite perché comunque la donna ha bisogno di parlare, di confrontarsi, ha bisogno di una parola di sostegno a livello psicologico quando percepisce la necessità di una parrucca. Nel momento in cui, vengono da noi presentano uno stato d’animo abbastanza fragile. Quindi il volontario è una persona che ascolta e accoglie. Esiste un’empatia imprescindibile. Viviamo di rapporti umani. E il fatto di non poter incontrare le persone ci ha fatto soffrire”.