Dove finisce la vera libertà? Un interrogativo che va ben al di là di semplici concetti di consenso e possibilità. Perché, spesso, la costrizione e l’imposizione indossano vesti seducenti, celando dietro innocenti apparenze le catene della società. Era il 1985 quando la scrittrice canadese, Margaret Atwood, conferì alla donna il ruolo di attrice protagonista del quadro sociale distopico dipinto nel suo romanzo “Il racconto dell’ancella”. Un vero e proprio mandato, volto a dimostrare come perfino la prerogativa femminile della maternità, della custodia del mistero della vita, possa essere utilizzato a discrezione dei burattinai. Specie se svuotata dal sentimento dell’amore, dietro un illusorio velo di riverenza. Un inganno che la Atwood dipinse nel suo romanzo attraverso l’immagine delle ancelle, preziose perché tra le poche donne fertili rimaste in una società che ha divorato sé stessa. E che l’attrice Viola Graziosi porta in scena (dall’8 al 12 maggio) al Teatro “Franco Parenti” di Milano. Il palco di una riflessione interiore che va ben al di là della finzione letteraria.
Il racconto dell’ancella
“Il mio compito non era quello di trasporre il romanzo a teatro – ha spiegato l’attrice a Interris.it -. È un classico, quindi sempre contemporaneo in quanto in ogni momento storico trova una risonanza diversa”. Da una lettura radiofonica, pensata per l’8 marzo 2018, alla consapevolezza di trovarsi di fronte a un testo che, di fatto, contiene una testimonianza: “Ci troviamo di fronte a qualcosa che è un’invenzione ma che si rifà a cose esistite, che esistono ed esisteranno. Qualcosa di fondamentale perché riguarda la nostra memoria. E che, in quanto tale, contiene una radice che ci permette di trasformarci senza perdere le nostre origini”. Da qui, “la necessità di uno spettacolo” che potesse mettere in evidenza “il percorso doloroso della protagonista, artefice del proprio destino: ne diventa parte come donna, procreatrice di vita ma anche come essere umano”.
Testimoni dei tempi
Le sfide dell’oggi, per paradosso, non sono poi così diverse da quelle poste dal romanzo. C’è di mezzo un mondo sempre meno votato al futuro, inteso come rafforzamento delle nuove generazioni. Senza contare che, come ricorda Viola Graziosi, “anche noi abbiamo vissuto una sorta di distopia: il Covid ha cambiato tutti noi, ci ha richiesto uno sguardo concreto sul nostro presente. Abbiamo subito delle scelte, facendo i conti ciascuno con la propria necessità. Come artista mi sono sentita compromessa ma l’ancella si è rafforzata. Il mio compito, nella società, è quello di fare l’attrice, portare la mia testimonianza in teatro. Io sono al servizio della sopravvivenza e reagisco”.
L’ancella: regina e schiava
E anche l’ancella reagisce, sulla scena e nelle coscienze di chi osserva: “In un periodo in cui, causa inquinamento, virus, pandemie, le donne sono sempre meno fertili, le nascite sotto lo zero, le donne in grado di procreare diventano fondamentali. Vengono prelevate per assolvere al compito di ripopolare il mondo. Sono regine e schiave. Dovendo usarne i corpi per ricostruire società, ci sono regole create per rendere la loro . Non ci sono più libri, insegnamento, scrittura, pensano il meno possibile, vanno in giro assieme per controllarsi a vicenda… È come se fosse, apparentemente, una nuova libertà: quella di essere totalmente donna, in grado di creare la vita”.
Eppure, quelle stesse donne “sono anche delle serve”. La loro vita è scandita tra il dovere, unico e supremo, e la meccanizzazione dei loro gesti quotidiani, quasi fosse un cerimoniale di comodo, sprazzi di un privilegio che è maschera della costrizione: “Ciò che colpisce di questo personaggio è che, per sopravvivenza, si è adagiato a questo sistema, cercando di vedere il lato positivo. Vive un mondo in cui dice: ‘Pensate alla schiavitù in cui vivevamo prima… Dovevamo lavorare, guadagnare, sforzarci per avere denaro, eravamo importunate'”. Eppure, l’auto-illusione non è che un ulteriore tassello della distopia: un eventuale fallimento nell’atto della procreazione, infatti, significherebbe l’eliminazione sociale. In questo quadro, la testimonianza diventa salvezza: “A lei rimangono brandelli di memoria, ancora di salvezza dell’ancella che decide di lasciare la sua testimonianza, custodita in cassette che vengono ritrovate in un tempo futuro. Viene fatto pensando che sia un reale tentativo di bene. Il paradosso è che parla di noi, ci mette di fronte a un’esperienza già condivisa”.
Il teatro e l’uomo
Al teatro, l’onere di “incarnarla nel qui e ora. Nel giro di un’ora, io porto una comunicazione un po’ traslata in cui giochiamo a entrare in questa esperienza – che gli spettatori vivono con me – che è forte e ci lascia qualcosa. Portarla in scena è un dovere, un compito. In teatro diventa simbolico, riguarda uomini e donne, dobbiamo capire che tutti abbiamo responsabilità di quanto succede e di non perdere le nostre radici, con ciò che la storia ci ha dato come esperienza. Altrimenti può succedere di tutto”.
In questo senso, la testimonianza diventa una necessità. Per sé stessi, per capire l’impegnativo compito di comprendere il nostro tempo: “Oggi siamo davanti a una sfida meravigliosa, se siamo consapevoli di noi: anche noi umani siamo ‘meccanici’ in alcuni gesti. Però dobbiamo ritornare alla nostra umanità: sul meccanismo siamo troppo fragili. L’essere umano, oggi, è chiamato a essere tale. Il progresso ci aiuta perché, tanto più lui avanza, tanto più noi dobbiamo tornare alla nostra essenza: non perdere le radici, la storia, i valori dell’essere umano. A non aver paura di termini come ‘famiglia’. Parole da intendere come veri valori dell’uomo”.