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Storie di umanità e resilienza dopo il terremoto

Dal cuore ferito di Amatrice, voci di sofferenza e quotidianità vessata dal ricordo. E anche dall'attesa

Si intitola “Valutazione partecipata della risposta umanitaria post emergenza” ed è il lavoro presentato dalle associazioni L’Alba dei Piccoli Passi e Action Aid. Il testo è scaricabile gratuitamente dal sito dell’associazione amatriciana. Le novanta pagine sono il frutto di una serie di incontri che hanno coinvolto 156 persone tra i 31 e i 60 anni, di cui il 70% donne. Se il fine ultimo è quello di sensibilizzare gli enti locali a dotarsi di protocolli o procedure specifiche in caso di emergenza, il dossier contiene anche la voci di chi tra il 24 agosto e il 31 dicembre 2016 ha dimorato in prima persona in camper, container e stalle.

Come Claudia Quaranta, 30 anni, fondatrice della onlus che ha organizzato l’iniziativa. «Abbiamo subìto una tragedia immane senza poter fare niente: sono morte tantissime persone, amici, familiari. Il senso di impotenza che ti assale, soprattutto i giorni e i mesi successivi, ti leva la consapevolezza che puoi essere padrone di te stesso e del tuo destino, che puoi influenzare l’andamento della tua vita. Metterci a lavoro con i volontari ci ha restituito questo senso di controllo – ha scritto –. Già dal 10 settembre ci siamo resi conto che serviva mettersi all’opera e migliorare la situazione. Su questo impulso abbiamo costituito un ente del Terzo settore per supportare le persone nelle tendopoli, fornendo loro i beni di cui avevano bisogno, e poi organizzando il tempo libero, soprattutto per le bambine e i bambini. L’aspetto più pesante era la mole quotidiana di azioni da realizzare per far partire tutte queste attività e sarebbe stato importante avere persone, volontari o associazioni di supporto alle iniziative nate dal basso».

Il racconto

«I primi due o tre giorni sono stata ospite insieme a mio marito e ai bambini piccoli da una signora che aveva la casa agibile. Il giorno trovavamo appoggio da lei e la sera dormivamo in macchina. Il 27 agosto ci siamo spostati nelle tende dell’Anpas e ci sono restata fino al 5 ottobre. Poi nei container e ci siamo trasferiti lì, dove viviamo ancora oggi. Non ho avuto diritto ad una S.A.E. perché ho uno stabile agibile a Configno, una frazione di Amatrice, ma è l’unica ancora in piedi e noi abbiamo bisogno di stare insieme agli altri – così Arianna Ferretti, 39 anni, estetista.

“Giravamo tutto il giorno dentro la tendopoli senza essere coinvolti nella gestione e invece avevamo proprio bisogno di fare. Nulla mi dava sollievo, se non il sorriso dei miei figli. La cosa che mi pesava di più era il fatto di non sentirmi una persona, di essere spersonalizzata, di dover fare tutto quello che mi dicevano gli altri: non potevamo far entrare qualcuno che ci veniva a trovare da fuori, non potevo uscire se non quando ce lo dicevano, dovevo rientrare quando ce lo dicevano. Non ero più padrona della mia vita».

Dopo il terremoto: vita in tendopoli

«Nella tendopoli la mia famiglia ed io siamo rimasti un mese, poi siamo stati costretti ad abbandonarla avendo una casa agibile, dove però di notte non siamo riusciti a rientrare per la paura e abbiamo continuato a dormire in un capannone. Siamo stati cacciati, nel vero senso della parola, dalla tendopoli: in maniera molto educata ci è stato detto: “sei un peso per lo Stato perché hai casa agibile” – ha raccontato Samantha Pace, 36 anni, allevatrice e imprenditrice –. Lì la mia giornata iniziava molto presto: mi svegliavo e preparavo i miei figli, facevamo colazione, lasciavo loro con le volontarie della tensostruttura e tornavo nell’azienda agricola. Il carico di lavoro è aumentato e si è complicato tutto, perché la mia vita è continuata con gli stessi doveri che avevo prima del sisma, ma con più fatica essendo dislocati fuori casa. La stalla dove erano gli animali è stata inagibile per diverso tempo: non abbiamo ricevuto aiuti immediati per questo. La mia vita familiare dopo il terremoto è stata stravolta. Mio figlio di un anno e mezzo dalla notte del sisma ha smesso di parlare e lo porto ancora oggi dalla logopedista. Vedere un bambino in una situazione del genere destabilizza tutta la famiglia. Adesso per fortuna va un po’ meglio».

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