Occhi che ti guardano, ti vedono, ma non sanno chi sei. Lo percepisci dall’incertezza della loro espressione e da quella domanda che ogni volta arriva come fosse una pugnalata: “Chi sei?”. Non ricordare, non riconoscere le persone che hanno vissuto la vita al loro fianco, perdere progressivamente tutti i ricordi, anche i più belli. E’ così che l’Alzheimer, come un lento e inarrestabile fiume in piena, devasta progressivamente il cervello, cancella la memoria di chi ne è affetto.
La malattia di Alzheimer
La malattia di Alzheimer-Perusini, detta anche morbo di Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante con esordio prevalentemente in età presenile, oltre i 65 anni. Il sintomo precoce più frequente è la difficoltà nel ricordare eventi recenti. Con l’avanzare dell’età si possono verificare disturbi come afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. A poco a poco le capacità mentali basilari vengono perse. Anche se la velocità di progressione della malattia può variare, l’aspettativa di vita media dopo la diagnosi è dai tre ai nove anni.
Cosa causa la malattia
La causa e la progressione della malattia di Alzheimer non sono ancora ben chiari. La ricerca indica che la malattia è strettamente associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, ma non è chiaro cosa causi questa degenerazione. La scienza crede che circa il 70% del rischio debba essere ricercato nella genetica, con molti geni solitamente coinvolti. Altri fattori di rischio includono traumi, depressione o ipertensione.
Un grande impatto sociale
La sua ampia e sempre più crescente diffusione nella popolazione, unita alla limitata e non risolutiva efficacia delle terapie disponibili, le ingenti risorse necessarie per la sua gestione che per la maggior parte ricadono sulle spalle dei familiari dei malati, rendono la malattia di Alzheimer una delle patologie a più grave impatto sociale.
Qualcosa sta cambiando
Grazie alla ricerca e alla sperimentazione, qualcosa sembra stia cambiando. Infatti, Dopo venti anni dall’ultima terapia approvata, la Fda statunitense ha dato il via libera a un nuovo farmaco contro la malattia di Alzheimer. Si tratta dell’Aduhelm, il cui nome scientifico è aducanumab, che da anni è al centro delle discussioni degli esperti sulla sua reale efficacia.
La stessa approvazione della Fda è condizionata all’esecuzione di altri test da parte dell’azienda produttrice visto che i risultati della prima fase di sperimentazione sono stati giudicati incompleti. La Biogen, infatti, dovrà condurre uno studio di follow-up dopo l’immissione in commercio per confermare i benefici del farmaco per i pazienti che saranno sottoposti a una risonanza magnetica da effettuare prima della settima e dodicesima infusione, anche per monitorare possibili effetti collaterali.
Non solo un farmaco, ma anche un vaccino sperimentale
Inoltre, con la pubblicazione sulla rivista Nature Aging, è stata resa nota la notizia di un vaccino sperimentale con l’Alzheimer: l’AADvac1. I risultati della sperimentazione clinica di fase 2 condotta da Peter Novak di Axon Neuroscience Crm Services Se, a Bratislava, mostrano che il vaccino è risultato sicuro e ben tollerato, ma ancora non adeguatamente efficace contro la degenerazione cognitiva e capace di produrre un qualche effetto apprezzabile sul quadro cognitivo solo su sottogruppi di pazienti.
AADvac1 istruisce il sistema immunitario del paziente a combattere gli accumuli di proteina tau, una delle molecole sospettate di essere implicate nell’Alzheimer o almeno in una parte dei casi. La speranza degli esperti è che ripulendo il cervello da Tau, si possano prevenire i danni neurali tipici della malattia, quindi la neurodegenerazione, nonché l’inesorabile calo cognitivo che ne consegue.
L’intervista
Per approfondire la tematica e cercare di fare chiarezza, Interris ha intervistato il professor Massimo Gandolfini, neurochirurgo e psichiatra, Direttore del Dipartimento di Neuroscienza, primario dell’U.O. Neurochirurgia dell’Ospedale Poliambulanza di Brescia.
Nei giorni scorsi la Fda ha approvato il primo trattamento che sembrerebbe essere in grado di rallentare il corso degenerativo del morbo di Alzheimer: l’Aduhelm. Una svolta epocale?
“Personalmente vado sempre molto cauto quando si tratta di diffondere al grande pubblico notizie scientifiche che possono ingenerare grandi speranze senza che vi sia una base di certezza sufficientemente solida. Se vogliamo parlare di ‘epocale’ questa riferita alla decisione davvero pesante del FDA: dopo quasi 20 anni di silenzio su possibili terapie per la malattia di Alzheimer ha deciso di autorizzare questo nuovo prodotto della Biogen, aducanumab (nome commerciale Aduhelm). Vanno, comunque, chiariti per una corretta informazione alcuni aspetti fondamentali. In primis, è concettualmente sbagliato presentare Aduhelm come il ‘farmaco’ che cura l’Alzheimer. Fermo restando che la sperimentazione clinica è ancora molto carente e, quindi, c’è assoluta necessità di continuare a lavorare e ricercare in merito, questo farmaco non cura la malattia, ma sembra essere abbastanza efficace nel rallentare la progressione del decadimento cognitivo, soprattutto nelle fasi iniziali dell’Alzheimer. In particolare, Sul piano del dato patologico, sembra essere efficace nel ridurre il numero di placche di beta-amiloide nel cervello. E’ ancora da verificare con certezza se esista una correlazione diretta fra numero delle placche e grado di declino cognitivo. Larga parte del mondo scientifico sta sollevando non poche perplessità proprio su questo aspetto”.
L’Aduhelm è il primo trattamento approvato per l’Alzheimer dal 2003. Come mai la ricerca scientifica in questo campo procede così lentamente? Quali sono le principali difficoltà?
“Dal 2003 ad oggi lo studio e la ricerca sulla malattia di Alzheimer non si nono mai fermate. Definirei incessante il lavoro che si sta svolgendo in molte parti del mondo all’avanguardia nella ricerca scientifica. Ma è chiaro che sono pochi gli Stati che hanno risorse economiche e network tecnologico adeguati per questi studi. Comunque, il vero scoglio da superare è comprendere quali siano i meccanismi biologici che provocano questa devastante degenerazione cerebrale, e se vi sono cause scatenanti che innescano la formazione delle placche e la degenerazione neurofibrillare”.
Ci sono altri trattamenti contro il morbo di Alzheimer che sono in attesa di approvazione?
“Come dicevo, la ricerca avanza e non conosce sosta, anche perché l’impatto sociale di questa malattia è in continua espansione. Oggi in Italia i pazienti affetti da malattia di Alzheimer sono più di 500.000. Negli USA siamo vicini ai sette milioni. E, attenzione: la malattia di A. è solo una delle patologie neurodegenerative responsabili dell’inesorabile decadimento cognitivo che ben conosciamo”.
Nelle ultime ore si appresa dell’esistenza anche di un vaccino sperimentale contro l’Alzheimer: l’AADvac1. Come funziona? E’ in grado di prevenire l’insorgere della patologia?
“Ancora più prudenza richiede la comunicazione su questo vaccino. Si tratta di uno studio sperimentale condotto su meno di 200 pazienti con Alzheimer iniziale. Il vaccino sembrerebbe in grado di dare una risposta immunitaria contro la proteina Tau il cui accumulo nel cervello potrebbe essere uno dei meccanismi alla base del quadro neurodegenerativo. Quindi, non si tratta di una vaccinazione ‘profilattica’ cioè che sia in grado di prevenire la malattia, ma di una vaccinoterapia da assumere quando la malattia si è già manifestata, in fase iniziale. Vorrei sottolineare con grande chiarezza: niente false speranze. Siamo ancora ben lontani dall’effettiva efficacia terapeutica documentata”.
Nonostante le difficoltà e, a volte, la carenza di fondi e investimenti, il campo della ricerca sta compiendo passi da giganti. Pensa che si potrà mai arrivare alla scoperta e all’approvazione di un farmaco che sia in grado di curare definitivamente l’Alzheimer?
“Allo stato attuale della ricerca, l’FDA ha preso questa decisione sulla scorta di un criterio molto empirico e non da tutti condiviso: ‘non abbiamo alternative’ e, quindi, proviamo con le armi che abbiamo. Al di là della reale efficacia o meno di questo farmaco, che potremo verificare nel prossimo futuro, rimane il vero nodo da sciogliere: ad oggi non conosciamo in maniera chiara quale sia la etiologia (agente causale scatenante) e la patogenesi (meccanismi patologici innescati) della malattia di Alzheimer. La ricerca va in questa direzione, gli sforzi sono davvero intensi ma il traguardo sembra ancora piuttosto lontano”.