L’aggressione verbale contro un medico di origine camerunense, Andi Nganso, al pronto soccorso di Lignano, in Friuli-Venezia Giulia, la notte del 17 agosto. Il secondo episodio ai suoi danni in quattro anni, il precedente, molto simile nella dinamica, a Cantù, a cui si deve aggiungere un insulto scritto sulla sua macchina a Roma. Pochi giorni dopo, il mezzofondista Yeman Crippa diventava campione d’Europa nei 10mila metri, trentadue anni dopo l’ultima medaglia d’oro italiana in questa gara. Nato in Etiopia, dopo esser diventato orfano è stato adottato da una coppia milanese. Due episodi che coinvolgono due giovani uomini afrodiscendenti e che mostrano due volti dell’Italia: quella dei comportamenti discriminatori e quella che si arricchisce grazie al riconoscimento e all’inclusione. Un paese dove, secondo il rapporto “Being black in Eu” dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali (Fra), la discriminazione basata sull’etnia o sull’essere una persone risulta particolarmente evidente, riverberandosi indistintamente anche sulle seconde generazioni.
Il progetto
Nel contrasto alla discriminazione e al razzismo, chi si impegna attivamente sono i e le partecipanti al progetto Champions of human rights and multipliers countering afrophobia and afrophobic speech (Champs). Finanziato dal programma Rights, Equality and Citizenship dell’Unione europea, nasce dal partenariato tra sei associazioni, Amref Health Africa Onlus Italia, CSVnet, Festival Divercity, Le Réseau, Razzismo Brutta Storia e l’Osservatorio di Pavia, in collaborazione con Arising Africans, Carta di Roma e CSV Marche. L’obiettivo del progetto è contribuire ad analizzare e decostruire, in Italia, gli atteggiamenti e i linguaggi discriminatori nei confronti delle persone di provenienza africana. 25 giovani persone afrodiscendenti, ragazzi e ragazze, giovani uomini e giovani donne A.f.a.r. (Afrodescendants fighting against racism) che da potenziali bersagli di linguaggio o comportamenti discriminatori diventano soggetti attivi, e testimoni, del contrasto al discorso d’odio, al razzismo anti-nero e all’afrofobia che si manifestano sotto forma di pregiudizi espressi, comportamenti offensivi, penalizzanti, ingiusti o escludenti, nei settori “chiave” della società, cioè la scuola, i media, il terzo settore e quello sanitario. Con una sensibilizzazione che viaggia anche sui media digitali, con i dieci video di approfondimento “Non è solo una questione di pelle” e il podcast in sette puntate “Get under my skin”, in cui a partire dalla propria esperienza si arrivare a trasformare la narrazione, pulendola dagli stereotipi.
L’intervista
In occasione della Giornata internazionale delle persone afrodiscendenti, che si celebra il 31 agosto, Interris.it ha intervistato una delle 25 persone A.f.a.r. del progetto Champs, Gaja Aurora Ebere Ikeagwuana. Ventunenne, figlia di madre italiana e padre nigeriano, lavora in ambito teatrale e delle comunicazione, studentessa di nuove tecnologie dell’arte all’Accademia di Belle arti di Brera, a Milano, “per trovare nuovi immaginari che comprendano molteplici linguaggi e molteplici volti”, racconta a Interris.
Qual è stato il primo contatto con il razzismo anti-nero o l’afrofobia?
“Quando si è piccoli non si capisce bene perché certe persone siano un po’ distaccata da te, poi crescendo e arrivando in età preadolescenziale ci si rende conto che per le persone afrodiscendenti, o comunque non di origine italiana, è un po’ più difficile socializzare e legare e con tutti gli altri. In seguito ci si rende conto che i comportamenti razzisti o afrofobici non sono uno soltanto ma si moltiplicano velocemente. Confrontandoci nel corso del progetto Champs abbiamo osservato che, spesso, nei vari territori dove viviamo abbiamo la percezione di essere l’unica persona afrodiscendente ‘nella stanza’, quando invece ce ne sono tante, soprattutto quelle di seconda generazione. Nel mio percorso, sono attivista da alcuni anni perché sono convinta che non ci si possa liberare da questi schemi da soli o da sole, bisogna invece lavorare come gruppo di persone”.
Come si possono definire, e distinguere, il razzismo anti-nero e l’afrofobia?
“La differenza è molto sottile, il primo separa le persone e il secondo, conseguenza del primo, è una sorta di rafforzamento del pregiudizio. anche rivolto contro sé stessi se si è afrodiscendenti. Il razzismo anti-nero è un background culturale che risale ad un imponente approccio teorico: le nostre università in Italia hanno come riferimenti teorici gli accademici bianchi occidentali, come se fosse stata tirata una ‘linea del colore’ e le persone non bianche fossero messe in fondo alla scala sociale. Un termine che separa, distanzia, le persone. Sull’afrofobia, che rientra nello stesso campo semantico, con gli altri e le altre A.f.a.r. abbiamo ragionato sul fatto si sviluppa in territori extraeuropei, come conseguenza del razzismo anti-nero, per via della discriminazione concettuale e simbolica risalente al periodo coloniale. Nel suo saggio ‘Pelle nera, maschere bianche’ Franz Fanon scriveva che, nel momento in cui si interiorizza la colonialità, le categorie di riferimento dei colonizzatori, anche le persone afrodiscendenti possono sviluppare afrofobia, anche verso sé stessi”.
Com’è avvenuto l’incontro con il progett Champs?
“Ho visto su Instagram la call aperta per l’iscrizione, è un tipo di spazio che mancava in Italia e così ho deciso di partecipare perché consente di sentirsi meno soli e dà una speranza più concreta. “Abbiamo partecipato ad una due giorni in presenza di formazione a Firenze, mentre il resto degli incontri, poiché veniamo da tutta l’Italia, si è svolto tramite call gestite in modo preciso molto dalle nostre formatrici”.
Che tipo di esperienza è, fare parte di un simile progetto?
“Far parte oggi di un gruppo afrodiscendente come Champs ci consente di fare ricerca e trovare gli strumenti per monitorare le aggressioni, perché solitamente vengono messi a statistica solo gli episodi di razzismo contro le persone senza la cittadinanza italiana e non sono menzionati quelli contro le persone di seconda generazione. Nel corso del nostro confronto online abbiamo affrontato i temi del progetto nei vari ambiti di riferimento, la sanità pubblica, il welfare, l’istruzione e la formazione. Dai nostri racconti sono emerse molte storie di macroaggressioni ma anche di microaggressioni, che sono meno discusse. Il razzismo si sviluppa in modi differenti ed è facile che le seconde prendano la forma, per esempio, di determinati termini problematici, come la n-word. Ho partecipato alla serie di podcast ‘Get under my skin’, nella puntata in cui si è affrontato se esista o meno, in Italia, una meritocrazia per le persone afrodiscendenti. Ne è emerso che ci sarebbe un doppio: le persone afrodiscendenti devono dimostrare di sapere più cose in contemporanea o prendere voti più alti rispetto a chi è di origine italiana”.
Qual è la rappresentazione dell’Africa, delle persone africane e di quelle afrodiscendenti presente nei media italiani?
“Grazie all’analisi effettuata dall’Osservatorio di Pavia, abbiamo potuto osservare e ragionare sul fatto che sui media passi una narrazione spesso infantilizzante delle persone afrodiscendenti o al suo opposto una sorta di ‘pornografia del dolore’, per via di un background culturale che porta a parlare di razzismo pericoloso solo negli episodi di violenza. Si tratta di semplificazioni della realtà per far arrivare le notizie a un numero più ampio di persone. Si pensi alla narrazione su Alika Ogorchukwu, il 39enne nigeriano ucciso a Civitanova lo scorso 29 luglio. Si è parlato di ambulante, quando si è trattato di un uomo ucciso sul suo posto di lavoro, di fronte ad altre persone, e nel caso dell’aggressore si è parlato di raptus. Per quanto riguarda la televisione, due anni fa è stata lanciata la campagna #CambieRai, per chiedere al servizio pubblico nazionale di rendere la sua informazione più rispettosa. Infine, nel mondo del web e della radio le cose vanno meglio, perché le nuove generazioni hanno ora in mano strumenti accessibili per rendersi protagonisti e sui social, come Instagram e Tiktok, le persone attiviste utilizzano i proprio profili”.
Il complesso fenomeno migratorio come è trattato?
“Ambo le parti lo trattano come un’emergenza e questo fa sì che le persone si sentano sempre in allerta. L’allerta è però una condizione in cui si è meno lucidi, meno razionali e quindi è meno capaci di comprendere le dinamiche del fenomeno”.
In che modo si decostruiscono gli atteggiamenti e i linguaggi discriminatori? E in quali luoghi?
“Scomporre un’elaborazione concettuale su cui si regge la narrativa eurocentrica ci consente di tornare protagonisti delle nostre storie e della nostra complessità. La decostruzione va fatta non all’interno di un solo ente, di una singola istituzione, di un nucleo, ma secondo un approccio reticolare che coinvolge le persone della nostra famiglia, dell’istituto scolastico che frequentiamo o abbiamo frequentato, del nostro posto di lavoro. Il ‘come’ decostruire cambia a secondo del contesto, è un processo che va fatto in luoghi paralleli e in molteplici modalità. Far studiare bene a scuola il processo storico del colonialismo e riconoscere che è stata una limitazione di molti popoli, fino allo sterminio. Quello del colonialismo è un lascito che è un dato storico, perché lì risiedono le ragioni di alcuni conflitti e delle condizioni di povertà strutturale di diversi Paesi. Altri modi per decostruire sono gli esercizi di empatia, l’ascolto, il riconoscere di avere della decostruzione da fare, diventare coscienti del proprio background culturale”.
In quali ambiti si riscontra una maggior inclusione e apertura verso le persone afrodiscendenti?
“Quando la persona afrodiscendente, o comunque una persona non bianca con un background non europeo, vince una competizione sportiva, più che essere inclusa ottiene un riconoscimento. L’inclusione è importante, ma mostra sempre un centro e un margine che viene accolto dal centro, mentre stiamo parlando di persone che sono già in Italia. Un altro ambito in cui sta avvenendo un riconoscimento è quello della moda. Nel mondo della cultura, anche se è ancora poco accessibile per le persone non bianche, c’è chi nel teatro trova la propria voce e crea degli spazi nuovi, in cui si instaura una relazione tra performer, di qualunque origine, e la comunità che va ad assistere”.