Nove anni missionario in Malawi, una passione sconfinata per l’Africa ed i suoi abitanti. L’amore per usi costumi e tradizioni diversi, vite diverse che si intrecciano alle nostre, con un senso del rispetto che difficilmente si riscontro in altre popolazioni. L’Africa è purtroppo la terra degli ultimi eppure i suoi abitanti hanno tanto da poter insegnare e condividere.
Di questo ne sono testimoni i migliaia di missionari che periodicamente partono dall’Italia per andare in quelle terre troppo spesso dimenticate, ma che hanno molto da raccontare. Uno di questi è Don Federico Tartaglia, oggi sacerdote della parrocchia di Selva Candida a Roma.
Don Federico nel 2000 chiede e ottiene di poter effettuare un’esperienza di servizio missionario, come ‘fidei donum’, nella Diocesi di Mangochi, in Malawi. Qui dal 2000 al 2008, insegna filosofia nel seminario maggiore per poi, nel 2003, diventare parroco nella parrocchia di Koche, dove rimane fino al 2009. Nel 2010 ritorna in Italia e viene nominato parroco a Cesano di Roma e Direttore del Centro Missionario Diocesano.
“Noi come ogni anno ora dovevamo stare lì in questo periodo, poi per ragioni legate alla pandemia ancora in corso non è stato possibile – racconta Don Federico a Interris.it -. Sono arrivato in Malawi grazie al nostro vescovo di allora che era missionario in quelle zone. Io non conoscevo quelle terre però fin da bambino avevo avuto l’ambizione di diventare missionario, un po’ per sogno, un po’ per fuga. Così una volta diventato sacerdote ho mantenuto questa idea, sono andato una prima volta in Rwanda nel 1989 e alla fine decisi di fare quest’esperienza e sono davvero contento di averla fatta”.
Cosa significa essere missionario ?
“La missione è una parte essenziale, perché ci permette di stare vicino agli ultimi. Il Malawi è uno dei paesi più poveri della terra ed è proprio lì che si capisce cosa significa che i poveri ci evangelizzano. La povera gente e gli ultimi hanno una fiducia in Dio che noi forse abbiamo smarrito”.
C’è stato un momento in cui è prevalsa la paura nel Malawi?
“Sicuramente all’inizio. Ero partito senza un’eccessiva preparazione ed ho auto paura di non farcela e di rimanere solo, ma ero determinato nel portare a compimento la mia vera missione. Così ho combattuto sia con le loro difficoltà di vita, provando ad aiutarli, ma anche con la mia difficoltà di capire questa fede così semplice ed essenziale. Ho dovuto imparare da loro che cosa significasse alzarsi e confidare soltanto nel buon Dio. Questo è qualcosa di cui si fa esperienza. Una fiducia incondizionata risposta nel Signore e nella Chiesa. Di fondo, però, ricordo il desiderio di essere fedele a questo percorso e a questa missione”.
“Se uno si prepara a seguire il Signore ed è anche desideroso di stare con gli ultimi non è mai una passeggiata, c’è da lavorare molto, c’è da rinunciare, poi ognuno di noi è tentato anche di ritirare un po’ i remi in barca, è normale. La voce degli ultimi, si sa, è impegnativa, è una voce a volte dimenticata, spesso l’allontaniamo. Invece sono stati anni unici e straordinari e ogni tanto sento proprio il bisogno e il dovere di andare lì anche per ricordare certe cose che qui tendo a dimenticare”.
Aiutiamoli a casa loro
“Solitamente viene detto di andare ad aiutarli a casa loro e quando poi lo facciamo ci viene detto che aiutiamo sempre loro. In qualche modo gli ultimi devono essere sempre “ultimamente lontani” da noi perché penso che quando uno entra in contatto con gli ultimi le proprie certezze vengono come sconvolte. Il piano delle proprie priorità viene scombussolato. E noi non vogliamo che questo accada”.
Quali sono le principali emergenze?
“Il nostri principali impegni sono gli ospedali, la sopravvivenza dei bambini, la loro scolarizzazione e poi l’aiuto e il sostegno alle famiglie, soprattutto quello scolastico. Io avevo fatto anche un progetto di carattere agricolo a cui sono particolarmente legato. Si tratta di una fattoria, con la quale abbiamo cercato di risolvere anche un altro grande problema riguardante la sicurezza alimentare“.
Qual è il rapporto che si instaura tra un parroco bianco ed una popolazione di colore? Ci sono paure o pregiudizi nell’affidarsi a lei?
“Non è mai scontato questo rapporto anche se non è mai così diverso da quando si va in una nuova parrocchia. Bisogna conoscersi, ovviamente il bianco porta sempre una speranza di progresso e un rispetto assoluto. Il Malawi tra l’altro è la nazione più rispettosa che abbia conosciuto, questo ovviamente viene dall’autorità. Io in Africa ho imparato le regole sincere e veritiere di un rispetto anche affettuoso che ho percepito ogni volta che sono tornato. Il Malawi viene definito il cuore caldo dell’Africa proprio perché c’è un sentimento di forte, umile e sincero affetto, e soprattutto non ci sono mai state guerre o percezione di insicurezza. É un posto particolarmente accogliente e tranquillo”.
Cosa cambia lì rispetto al nostro modo di vivere la vita e la fede?
“Ciò che ci differenzia è la cultura, la società, la realtà ancestrale, un naturale affidamento in tutto e per tutto a Dio. Noi uomini moderni abbiamo riposto la fede da qualche parte e camminiamo in questo deserto del vuoto che invece una persona in Africa non avvertirà mai. La differenza tra i poveri e i ricchi, tra gli africani e gli occidentali è Dio. Noi camminiamo nel vuoto, ma questo vuoto è sempre costantemente illuminato da Dio“.