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“Abilismo”: causa, conseguenze e soggetti coinvolti

Nella società attuale, spesso competitiva e divisiva, si cerca ogni pretesto per detronizzare il prossimo. Quanto può ancora durare?

L’abilismo consiste nel comportamento e nel giudizio posti in essere, intenzionalmente o involontariamente, per discriminare le persone disabili. Il vocabolario Treccani lo considera come un neologismo, italiano, del 2022 e lo definisce “Atteggiamento discriminatorio e pregiudizialmente svalutativo verso le persone con disabilità”. Nei Paesi anglosassoni, il termine “ableism” è già presente dagli anni ‘80. Il notevole ritardo nell’assimilazione, da parte della cultura italiana, conduce a importanti riflessioni.

Per l’abilismo, il valore di una persona è direttamente proporzionale alla sua normalità: chi presenta delle menomazioni risulta essere un soggetto meno valido. Si considera la disabilità come una variabile di giudizio, un metro di paragone per valutare se ci siano o non ci siano le capacità.

L’abilista giudica come “individuo” solo chi è ritenuto “normale”, senza disabilità. Lo stigma proviene da considerazioni grette e radicate, ostili e contornate da espressioni di disprezzo. Nella sua indifferenza, usa in malafede, e in un’accezione negativa, espressioni del tipo “handicappato” o “down”. Promuove un mondo che, a livello pratico e di opportunità, sia a disposizione solo dei cosiddetti “normali”. Anziché rimuovere le barriere presenti, fisiche e non, le favorisce e le pretende.

Il parcheggiare, a esempio, nei posti riservati ai disabili (“abitudine” molto diffusa), consiste in una manifestazione di abilismo, spesso documentata dal programma “Striscia la notizia”. Pretendere di aver ragione o, comunque, minimizzare il proprio comportamento, da parte dei responsabili, lascia intendere quanto l’indifferenza sia radicata e dura a morire. Tali principi razzisti sono molto interiorizzati in alcuni, costituiscono il loro costrutto mentale, il modus operandi: l’egoismo, tradotto, codificato e realizzato.

Oltre alle manifestazioni pratiche (barriere, ostacoli lavorativi e sociali), è, quindi, presente anche una terminologia che utilizza termini come “handicappato, cerebroleso, mongoloide” per definire, con disprezzo, chi è disabile. L’utilizzo di questi vocaboli, con le suddette finalità è molto diffuso, anche tra persone “insospettabili” che sembrano dimostrare, in apparenza, un’elevata sensibilità.

Molte volte, il ferire l’altro nasce dall’inconsapevolezza, dal voler essere di conforto; si incappa, invece, in frasi inopportune che colpiscono ancora di più. La compassione eccessiva, il pietismo fastidioso sono esempi di abilismo involontario.

Una delle circostanze più dolorose, in cui si tende a compatire ma, in realtà, si scava una distanza sempre più ampia, è quella in cui ci si sorprende per gesti banali, considerati come eroici. Affermazioni del tipo “se fosse successo a me non sarei stato in grado di combinare nulla”, sono espressioni profonde di abilismo. L’intento è, probabilmente, improntato a cercare di ridurre le distanze ma, in realtà, le aumenta.

L’interiorizzazione del pensiero emarginante è il segnale peggiore: è un male che prosciuga chi lo esercita. Al tempo stesso, pone interrogativi sul reale progresso, materiale e spirituale, dell’umanità.

Nel Messaggio per la Quaresima del 2012, del 3 novembre 2011, Benedetto XVI afferma: “Essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la ‘sfera privata’. Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell’altro. […] La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di ‘anestesia spirituale’ che rende ciechi alle sofferenze altrui”.

Maria Chiara ed Elena Paolini, formatrici e blogger sulla giustizia sociale applicata alla disabilità, sono le autrici di “Mezze persone” (sottotitolo “Riconoscere e comprendere l’abilismo”), pubblicato, nella nuova edizione, nel mese corrente, da “Venturaedizioni”. Parte dell’estratto recita: “Il termine ‘abilismo’ indica lo stigma e la discriminazione verso le persone disabili. […] Le autrici smascherano l’abilismo radicato nella società analizzandolo nelle sue molteplici manifestazioni: nel quotidiano, al cinema, in televisione e sui giornali, nel linguaggio comune e in quello politico, nella medicina e nella scuola, nei movimenti sociali e nelle relazioni interpersonali”.

Un altro volume, “Nulla su di noi senza di noi” (sottotitolo “Una ricerca empirica sull’abilismo in Italia”), pubblicato da “Franco Angeli” nell’aprile 2022, i cui autori sono Rosa Bellacicco, Silvia Dell’AnnaEster MicalizziTania Parisi, fornisce dei numeri che inducono a riflettere. Si leggono statistiche riferite a un campione di 1.500 intervistati: “La prima affermazione ‘Le persone con disabilità che si sforzano di comportarsi come gli altri sono da ammirare’ […] Quel che implicitamente si afferma è che nella disabilità ci sia qualcosa da nascondere, di cui vergognarsi”, il 72% è d’accordo, il 20% è neutro, l’8% in disaccordo. Nel testo ci sono altri item, fra questi “È controproducente far avanzare nella carriera una persona con disabilità, perché rischia di assentarsi spesso ed essere meno produttiva”. L’11% è d’accordo, il 16% è neutro, il 73% in disaccordo. Altri dati sono più inquietanti “Il grado di accordo sale al 39% per l’affermazione ‘È un bene che i bambini con disabilità sensoriale (sordi o ciechi) abbiano scuole dedicate solo a loro per rispondere meglio ai loro bisogni’” e “Il 16% degli intervistati ritiene che ‘Avere un bambino autistico in classe rallenta il programma”.

I social hanno mostrato una doppia faccia: a situazioni di maggiore sensibilità, di trasmissione di valori e riflessione, si alternano delle incomprensibili, e criminali, manifestazioni di odio e derisione. In quest’ultimo caso, le sanzioni e i provvedimenti verso gli hater dovrebbero essere esemplari e risolutivi. Occorrerebbe, inoltre, capire cosa spinge loro a nutrire e a esprimere la profonda rabbia che li attanaglia, la diabolica cattiveria che li muove.

L’apposizione di un’etichetta, fattispecie molto frequente, in diversi ambiti sociali, per caratteristiche e orientamenti personali, è l’applicazione pratica della discriminazione. Sorprendersi per obiettivi quotidiani o per alcuni traguardi di studio (a esempio conseguire una laurea) o di lavoro a medio e lungo termine centrati dal disabile, implicitamente si lega a una sottovalutazione e a un pregiudizio infondati, dai quali occorre convintamente liberarsi.

L’abilismo è presente anche nel campo lavorativo, quando si tende a escludere una persona, a priori, nella convinzione che non possa svolgere determinate attività. L’abilista è ingabbiato nella sua ottica, divisiva e dicotomica, di scorgere necessariamente la differenza: un migliore e un peggiore, un vincitore e un perdente.

La terminologia ha sempre la sua efficacia: il termine abilismo, in particolare, oltre a intendere le forme pratiche di discriminazione, raccoglie un invito sottile a riflettere in quante affermazioni, inopportune e dolorose, si possa incappare. L’individuo della società egoista, arrivista, competitiva e frenetica è in grado di riflettere su queste argomentazioni?

È fondamentale ricordare come il termine “esclusione” non significhi soltanto “tenere lontano da” bensì comprenda anche non “favorire l’accesso a” e “non garantire le stesse condizioni per”. Ha due “valenze”, quindi, una attiva e una passiva, entrambe deprecabili. L’abilismo le incarna ambedue.

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