Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Così la Corte d' Assise di Caltanissetta nelle sue motivazioni del processo Borsellino quater, lunga 1865 pagine, parla della strage di VIa d'Amelio che, il 19 luglio 1992, portò alla morte del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. L'ultimo processo sul massacro era stato concluso 14 mesi e, con il deposito del fascicolo, ecco che la Corte rivela che le indagini che seguirono la strage subirono influenze da parte di uomini delle istituzioni, “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”, sui quali, spiegano i firmatari, “è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite”, in relazione a “tale disegno criminoso” che portò i soggetti in questione a indurre le gole profonde di Cosa nostra a rendere dichiarazioni false per sviare le investigazioni sulla carneficina di Palermo.
Fari sul pool investigativo
Riflettori, in particolare, sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino al quale, secondo i giudici della Corte d'Assise, vennero suggerite “un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero” che portarono all'accusa di 7 estranei alla vicenda. E parole dure sono rivolte verso il gruppo investigativo di allora, guidato dal capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera (deceduto) i quali, chiamati a scovare i responsabili, avrebbero invece costretto Scarantino a rivelare una versione falsa, di fatto inquinando il percorso dell'indagine e omettendo di far luce sui reali autori e mandanti dell'omicidio del giudice e degli agenti che erano con lui.
Poca cautela
La Corte, si legge ancora nelle motivazioni, accusa gli investigatori dell'epoca di aver esercitato “una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte”. E i giudici, implicitamente, parlano di poca attenzione della magistratura di allora, poiché “un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata”.
L'agenda rossa
Un capitolo del dossier è stato incentrato sulla scomparsa della cosiddetta 'agenda rossa' in possesso del magistrato al momento del suo omicidio. Secondo la Corte d'Assise esisterebbe “un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende”. Un riferimento allo stesso Arnaldo La Barbera, coordinatore delle indagini, i quale ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”. E' la prima volta che un tale collegamento viene ufficialmente nominato in un atto processuale. Secondo i giudici, il diario “conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato a una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci”. Ora l'indagine sul depistaggio è aperta e l'obiettivo è far luce su chi lo mise in atto: nel mirino, alcuni ex membri del gruppo investigativo di La Barbera.