L’inizio settimana è stato segnato da una correzione significativa degli indici americani e sui quotidiani già si parla di “New York in caduta” ma la situazione potrebbe benissimo essere meno pesante rispetto a quanto i media stiano tratteggiando.
Nonostante il calo marcato, tutt’oggi gli indici americani si mantengono sui massimi storici rispetto anche solo ai primi giorni di dicembre dello scorso anno e un crollo vero e proprio dovrebbe essere ben più marcato per poter dare qualche vera preoccupazione. Non si sta dicendo, oggi, che questo non sia possibile anche solo nelle prossime settimane ma, senza eventi traumatici a livello geopolitico, la cosa sembrerebbe alquanto improbabile.
La riforma fiscale di Trump, varata da poco, sta già facendo affluire investimenti produttivi sul territorio americano. Contemporaneamente si assiste a un calo vistoso della disoccupazione e a una crescita del tasso di occupazione che è il contraltare per determinare veramente se le politiche economiche volte alla ripresa del mercato del lavoro siano efficaci o meno. Questa situazione potrebbe, finalmente, far ripartire la dinamica inflazionistica che si stima possa procedere più velocemente rispetto a quanto previsto in precedenza.
Per queste ragioni, infatti, non è azzardato pensare a nuovi interventi al rialzo dei tassi di interesse da parte della Fed, cosa che i mercati danno per scontata tanto che il bond governativo decennale ha raggiunto una resa del 2,88%, ai massimi dal 2014.
Una normalizzazione dei tassi, finora innaturalmente bassi nonostante il tapering iniziato già da diverso tempo e i rialzi, pur prudenziali, degli stessi durante lo scorso anno, inevitabilmente porterebbe a uno spostamento di asset finanziari dai listini azionari ad altri settori di investimento non avendo più quelli come unico sbocco per cercare una remunerazione ottimale dei capitali.
Di qui a una correzione, in effetti salutare, il passo è breve.
Sicuramente resta fuori luogo una titolazione urlata, tipica di questi casi, in cui si annuncia che siano stati “bruciati” un certo numero di miliardi; nessuno ha bruciato nulla, infatti, semplicemente qualcuno ha incassato i capitali risultanti dal sell off e questi verranno, in seguito, riposizionati su altre asset class non appena se ne vedesse l’opportunità.
È credibile che parte di questi fondi verranno destinati a nuovi investimenti produttivi per sfruttare la ripresa del potere d’acquisto derivante dalla crescita occupazionale e salariale che, sembra, stia avvenendo oltre oceano. La ripresa inflazionistica, inoltre, stando alle stime sarà dovuta a una ripresa dei consumi e degli investimenti privati cosa che spingerà a un ridimensionamento dei listini e, credibilmente, a un miglioramento dei fondamentali spingendo i dividendi e, di seguito, reinnescando il bullish trend secolare che da sempre caratterizza i mercati azionari.
Le grandi crisi, infatti, compresi il “venerdì nero” del 1929, lo scoppio della bolla New Economy o il periodo post Lehmann hanno rappresentato dei momenti di discontinuità, facendo “pulizia” delle aziende meno performanti, ma che non hanno inficiato la crescita degli indici di borsa. Infatti a metà anni 50 il Dow Jones aveva già recuperato e superato i valori pre-crisi e i drawdown seguenti non furono mai così marcati, anche se in valore assoluto abbiano rappresentato delle perdite decisamente più importanti.
Detto questo c’è un altro fattore che non può essere tralasciato nell’analisi di questo calo degli indici che riguarda la stagionalità.
Non è sicuramente una regola ma osservando le serie storiche degli ultimi cento anni è possibile ricavare un trend molto significativo nell’andamento degli indici che vedono i sell off concentrarsi in alcuni mesi, cioè febbraio, come quello che stiamo vedendo oggi, maggio e settembre/ottobre (che è il periodo in cui si sono verificati i crolli più significativi come quello del 1929, quello del 1987 e quello più recente del 2008).
Da questa ciclicità stagionale, ad esempio, nasce il famoso detto “sell in may and go away” che indica come, storicamente, nel mese di maggio si abbandonino o si alleggeriscano le posizioni long in previsione dell’estate, producendo un effetto negativo sui listini, probabilmente, in preparazione delle nuove aperture di posizioni rialziste nel periodo subito seguente alla presentazione dei risultati di bilancio annui delle aziende quotate che si apre con l’estate.
In definitiva non mi sentirei di usare toni allarmistici per la correzione che si sta vedendo a New York, benché il livello di liquidità immessa sui mercati sia ancora assai elevato e che, credibilmente, porterà al rischio di un nuovo e più corposo ridimensionamento nei prossimi mesi. Una normalizzazione dei mercati, in seguito al rialzo dei tassi, sarebbe, però, solo positiva anche già nel medio termine, soprattutto se accompagnata da un miglioramento dei fondamentali dell’economia a stelle e strisce perché il travaso dei capitali dal settore finanziario agli investimenti produttivi è un fattore centrale nella crescita di un sistema economico ma questo lo potremo vedere non oggi ma nel futuro, probabilmente più vicino di quanto si possa immaginare.