Sono ampiamente superati i tempi in cui teologia e scienze umane, vocazione e maturità affettiva sembravano inconciliabili.
Eppure il binomio chiamata di Dio ed equilibrio psicoaffettivo rimangono difficili da integrare ed armonizzare, senza che ci siano sbilanciamenti o usurpazioni di ruoli e competenze. Per esempio: la chiamata di Dio ha a che fare con la maturità umana, d’accordo, ma come si verificano l’uno e l’altra e in che rapporto stanno?
A complicare ulteriormente l’argomento, c’è la complessità del concetto di maturità. Ritengo che l’ultima versione del Manuale Diagnostico, il DSM-5 (che visto e pronunciato potrebbe sembrare assai poco rassicurante) offra una prospettiva meno medicalista e più psicodinamica della persona «ben funzionante» e quindi, nei nostri termini, «matura» (per un approfondimento, C. D’Urbano, Per sempre o finché dura, Città Nuova 2018, cap. III). Dico solo brevemente che la nuova sezione di questo testo (la III) finalmente osserva l’essere umano in tutta la sua complessità, non statica, e lo osserva non solo come individuo a sé, ma come individuo-in-relazione, da cui le dimensioni interpersonali che fanno parte integrante del benessere complessivo.
Peraltro è interessante che la griglia della sezione III, nel suo insieme, è ben compatibile con la nostra antropologia cristiana, per questo il suo utilizzo è trasversale alla vocazione specifica ed è utile per riflettere anche all’interno dei percorsi di fede. È chiaro che poi i criteri vanno declinati nella concretezza di ciascuno stato di vita: di coppia, sacerdotale, di fraternità… Ma non è questa la sede per addentrarci nell’argomento.
Provo, piuttosto, a condividere la prospettiva nella quale colloco e comprendo la nostra riflessione.
Prima di tutto è notevole che Papa Francesco abbia esplicitato nell’Amoris Laetitia che le crisi – si riferisce alle famiglie, ma si può estendere certamente anche alle realtà di preti e consacrati/e e delle loro comunità – sono legate alle situazioni di immaturità:
«È comprensibile che nelle famiglie ci siano molte difficoltà quando qualcuno dei suoi membri non ha maturato il suo modo di relazionarsi, perché non ha guarito ferite di qualche fase della sua vita. La propria infanzia e la propria adolescenza vissute male sono terreno fertile per crisi personali che finiscono per danneggiare il matrimonio. Se tutti fossero persone maturate normalmente, le crisi sarebbero meno frequenti e meno dolorose. Ma il fatto è che a volte le persone hanno bisogno di realizzare a quarant’anni una maturazione arretrata che avrebbero dovuto raggiungere alla fine dell’adolescenza [il grassetto è mio]. A volte si ama con un amore egocentrico proprio del bambino, fissato in una fase in cui la realtà si distorce e si vive il capriccio che tutto debba girare intorno al proprio io. È un amore insaziabile, che grida e piange quando non ottiene quello che desidera. Altre volte si ama con un amore fissato ad una fase adolescenziale, segnato dal contrasto, dalla critica acida, dall’abitudine di incolpare gli altri, dalla logica del sentimento e della fantasia, dove gli altri devono riempire i nostri vuoti o sostenere i nostri capricci» (AL, 239).
Queste parole ci suggeriscono che le situazioni di immaturità compromettono la stabilità di una scelta e quindi al “sì” sponsale o vocazionale ci si arriva all’interno di un processo di crescita anche umana/psicologica. Il Papa aggiunge che ciascuno deve quindi interrogarsi su come possa migliorare se stesso per favorire il superamento della difficoltà, senza attribuire all’altro, agli altri, tutta la responsabilità del malessere. Dunque situazioni personali/familiari irrisolte, o meglio, non elaborate e metabolizzate, possono minare le scelte adulte. Ci si può, tuttavia, lavorare e le difficoltà sono comunque parte della «drammatica bellezza» di ogni famiglia (AL, 232), direi di ogni scelta di vita.
Rimane, comunque, aperta la domanda su come mettere insieme una dimensione trascendente – Dio che decide liberamente chi chiamare e in quale strada – e la necessità di un equilibrio e di una pienezza umana.
Il primato teologico della vocazione è indiscutibile (cf. S. Guarinelli, 2018): Dio mette nel cuore un desiderio, un’intuizione che poi va approfondita. Il Dio cristiano non è però un Dio bizzarro (un po’ sì, in effetti) che pensa delle strade per quella persona, la quale è riluttante e anzi vive male l’intuizione stessa. Sarebbe un’anomalia notevole. Perciò, al di là delle resistenze e delle paure iniziali, «proprio io?», e successive, quell’uomo o quella donna sente confacente a sé la via che intuisce essere la propria. In altre parole: la volontà di Dio e la realizzazione umana convergono, seppur secondo le categorie evangeliche dove la realizzazione non è il successo, ma il dono pieno e incondizionato di sé, l’amore, che passa attraverso il sacrificio.
Credo, perciò, che avvalersi di criteri umani possa aiutare a capire se la persona sia nella strada «giusta», cioè quella che la farà crescere ed espandere. Non c’è concorrenza. La volontà di Dio, la fede, la dimensione spirituale, che sono il terreno e la cornice della risposta umana, possono beneficiare di alcuni criteri umani, come quelli che riguardano la maturità. Faccio un esempio concreto che ho modo di riscontrare nella vita persona e professionale: a volte la persona sembra regredire in un ambiente, perché in realtà non è nell’ambiente adatto a lei. Non è un problema di maturità in se stessa, ma di contesto.
C’è una sorta di circolarità: la vocazione che ha il suo primato in Dio, si esplicita in un crescente benessere umano. Il benessere, inteso come espansione del cuore e della generosità, pace interiore (anche quando ci sono difficoltà e momenti dolorosi), talenti messi a frutto, sono i segni che lì è la volontà di Dio. Se, invece, la persona si chiude, si indurisce, perde la gioia, umanamente non matura, è possibile che Dio lo attenda altrove.