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La vite, i sarmenti e l’agricoltore: il nostro rapporto col Padre

Con le ultime due domeniche del tempo pasquale entriamo nella preparazione immediata alle feste dell’Ascensione e della Pentecoste. Sono le domeniche del commiato. Il vangelo di questa domenica e della prossima ci offre dei brani del discorso di addio di Gesù ai suoi discepoli durante l’ultima cena. Si tratta del suo testamento, prima della passione e morte. Perché riprendere questi testi proprio nel periodo pasquale? La Chiesa segue l’antica tradizione di leggere durante questo tempo i cinque capitoli di Giovanni relativi all’ultima cena, dal 13 al 17, nei quali Gesù presenta il senso della sua morte e della sua “pasqua”. Inoltre, potremmo dire che, trattandosi del suo lascito, il testamento va aperto dopo la sua morte. Gesù lascia la sua eredità, i suoi beni, a noi suoi eredi.

Vigna pregiata o vigna bastarda?

Dai pascoli ai vigneti. Nel vangelo di Giovanni non troviamo delle parabole come negli altri tre vangeli, ma delle similitudini. Domenica scorsa l’evangelista ha impiegato una allegoria tratta dalla pastorizia: “Io sono il buon pastore”. Oggi ne adotta una agricola: “Io sono la vite e voi i tralci”. La vigna, l’olivo e il fico sono simboli dell’abbondanza e fertilità della “terra promessa” e sono impiegati come simboli della fecondità del popolo di Dio.

Nella tradizione profetica, il popolo di Dio viene spesso presentato come vite scelta e vigna pregiata: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle… Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?” (Isaia 5,1-7); “Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?” (Geremia 2,21); “Vite rigogliosa era Israele, che dava sempre il suo frutto; ma più abbondante era il suo frutto, più moltiplicava gli altari.” (Osea 10,1); “Figlio dell’uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto?… Ecco, lo si getta nel fuoco a bruciare.” (Ezechiele 15,1-8); “Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque… Ma essa fu sradicata con furore e gettata a terra.” (Ezechiele 19,10-14).

Notiamo che Dio si mostra deluso nelle sue aspettative. Dopo tutta la cura e l’amore per la sua vigna si attendeva dei frutti e, invece, la vigna degenerata produce acini acerbi. Come non vedere qui il lamento del Signore sulle nostre situazioni di infedeltà, a livello personale o comunitario?!

Il Signore però non abbandona la sua vigna e risponde alla preghiera del salmista: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna.” (Salmo 80,9-17). Ed ecco la promessa messianica: “In quel giorno la vigna sarà deliziosa: cantàtela! Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi, ne ho cura notte e giorno… Nei giorni che verranno Giacobbe metterà radici, Israele fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti.” (Isaia 27,2-5). La visita di Dio e l’adempimento della sua promessa avviene con Gesù. È lui la vite, il vero Israele fedele che offrirà al Padre “il vino nuovo” (Giovanni 2,10).

La vite, i sarmenti e l’agricoltore: il nostro rapporto col Padre

“Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore”. Troviamo qui due affermazioni molto forti. Prima di tutto, l’espressione di Gesù suona come una auto-rivelazione: “Io Sono” è una allusione al Nome di Dio. Inoltre, attribuisce a sé l’immagine della vite che era impiegata in riferimento a Israele.

Il Padre è l’agricoltore. Cosa fa? “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. La potatura è qualcosa di essenziale per la fecondità della vite ed è un’arte, perché bisogna sapere cosa, dove e come tagliare. Da una parte, è necessario tagliare i sarmenti che non produrranno frutto e indebolirebbero la pianta. Dall’altra, potare i tralci che daranno frutto per favorirne la la quantità e la qualità. Questo si fa verso l’inizio dell’inverno e si dice che la vite “piange”, per la linfa che scorre dai tralci potati. Quando poi spuntano i germogli si rimuovono quelli più deboli e, più tardi, anche le foglie che non favoriscono la crescita del grappolo.

Dall’immagine alla realtà: Dio opera nella nostra vita una potatura o purificazione continua. La forbice che egli utilizza è, in primo luogo, la sua Parola, ma pure gli eventi della vita, la correzione fraterna e, addirittura, la critica dei non-credenti, talvolta sfregiante e spietata. Da parte nostra, ci vuole una attenzione permanente per recidere quanto sta indebolendo la nostra vita cristiana. Spesso lasciamo crescere tanti germogli che producono solo fogliame. Coltiviamo troppi interessi che ci assorbono energie e compromettono la qualità dei frutti. Un esempio di potatura lo troviamo nella vita di San Paolo (vedi prima lettura). Grazie ad essa diventa il grande apostolo delle genti.

Rimanere in Cristo per portare frutto: il nostro rapporto col Figlio

“Rimanete in me e io in voi”. Per esprimere l’unione dei tralci alla vite, Gesù impiega il verbo “rimanere”, un verbo molto caro a Giovanni. Qui, nel brano di oggi, compare sette volte e una quarantina di volte in tutto il vangelo. Letteralmente il verbo significa “dimorare”. Il nostro rapporto con Cristo è quello di una dimora vicendevole: io in Lui e Lui in me. San Paolo esprime questa stessa realtà con l’espressione “essere in Cristo”, che troviamo innumerevoli volte (164) nelle sue lettere. “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me!” (Galati 2,20). Rimanere, dimorare, essere in Cristo significa essere inseriti in Gesù, lasciarsi guidare dalla sua Parola, avere il suo modo di pensare, di sentire e di agire. Questo è frutto di un lungo processo di frequentazione col Signore: “Maestro, dove dimori? – Venite e vedrete!” (Giovanni 1,38).

Scendendo al concreto della vita, dobbiamo ammettere che, purtroppo, smarrire questa sintonizzazione del cuore e della vita con Cristo non è poi tanto difficile. Ciò può avvenire in un modo quasi impercettibile e surrettizio, e subentra allora l’adeguamento ad una “mentalità mondana”. C’è tanta futilità, banalità, interessi effimeri e doppiezza che ci distolgono dalle cose importanti! Ci vuole una attenzione continua sui nostri pensieri, desideri e interessi. Bisogna effettuare periodicamente un esame di coscienza per vedere dove dimora il nostro cuore, perché “dov’è il tuo tesoro là sarà il tuo cuore” (Matteo 6,21).

“Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto”. “ In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto”. L’espressione “portare frutto” appare sei volte nel brano del vangelo. Qual è questo frutto? L’amore! “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.” (seconda lettura). Solo l’amore resterà, quando la nostra vita sarà sottoposta al fuoco della verità: “L’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno.” (1 Corinzi 3,13).

Pensiamo bene: il Signore ha investito tutto sulla nostra vita, correndo grandi rischi. C’è come una simbiosi tra la vite e i tralci. Senza la vite i tralci seccano e sono bruciati, ma senza i tralci la vite rimane sterile. “In ogni istante della vita, noi costituiamo un argomento pro o contro Gesù Cristo” (romanziere francese René Bazin, 1853-1932). “La più grande obiezione contro il cristianesimo sono i cristiani”, commenta il filosofo russo Nikolaj Berdjaev (1874-1948) a proposito dei tralci secchi.

La linfa della vite: il nostro rapporto con lo Spirito Santo

È lo Spirito la linfa vitale che scorre nella vite e nei tralci. “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.” (seconda lettura). Coltivare, curare il nostro rapporto con lo Spirito è la condizione indispensabile per condurre una vita cristiana feconda e rigogliosa. Per di più, vivendo noi in una condizione di “diaspora”, in un contesto di crescente secolarismo e marginalizzazione della fede, non possiamo sopravvivere senza “il conforto dello Spirito Santo” (prima lettura).

Per la riflessione settimanale

Troviamo nel vangelo di Giovanni tutta una serie di dichiarazioni in cui Gesù si auto-rivela (“Io Sono”, “egô eimì” in greco), due delle quali nel vangelo di oggi. Sono delle “epifanie” di Gesù. Alcune sono in forma assoluta: “Io sono”, ed evocano il nome divino (Esodo 3,14). Altre volte “Io sono” viene accompagnato da una specificazione, come nel vangelo di oggi: “Io sono la vite”. Vi propongo dieci. Accogliamole nel cuore e diamo la nostra adesione a queste sue rivelazioni in forma di preghiera, con un atto di fede, di speranza o di amore.

  • “Sono io, che parlo con te” (4,26, alla samaritana)
  • “Sono io, non abbiate paura!” (6,20, ai discepoli impauriti)
  • “Io sono il pane della vita “ (6,35)
  • “Io sono la luce del mondo” (8,12)
  • “Io sono la porta” (10,7)
  • “Io sono il buon pastore” (10,11)
  • “Io sono la risurrezione e la vita” (11,25)
  • “Io sono la via, la verità e la vita” (14,6)
  • “Io sono la vite vera” (15,1)
  • “Io sono re” (18,37)

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