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Violenza contro le donne: investire sull’educazione dei giovani

A dimostrazione della profonda sensibilità del legislatore italiano nella materia di contrasto alla violenza esercitata sulle donne, assistiamo ad una strategia integrata che, a livello nazionale, si connota per il succedersi di numerose leggi, nel brevissimo arco temporale degli ultimi undici anni. I provvedimenti che più hanno inciso nel contrasto alla violenza di genere sono la legge n. 69 del 2019, nota come “Codice rosso”, che ha rafforzato le tutele processuali delle vittime di reati violenti, con particolare riferimento ai reati di violenza sessuale e domestica, introducendo, altresì, nuove fattispecie di reato ed aumenti di pena e la legge n. 168 del 2023.

Quest’ultima – nella certezza, derivante dal dato statistico, che si è in presenza di un fenomeno criminale per il quale la tempestività può essere il vero salvavita – ha rafforzato gli strumenti di prevenzione come l’ammonimento e il c.d. braccialetto elettronico, rendendoli applicabili anche ai “reati spia”, al fine di depotenziare il pericolo prima che possa deflagrare. Particolare attenzione è stata rivolta ai percorsi di recupero, ritenuti di grande rilievo ai fini del contenimento della recidiva. Inoltre, nelle diverse fasi del processo, ed ancor prima del suo instaurarsi, è stato reso, sempre più incisivo, il sostegno alle vittime. Completano la cornice normativa di riferimento le fonti sovranazionali e i principi costituzionali, nonché la recentissima direttiva europea del 2024.

Ma nonostante la continua produzione legislativa, relativamente al periodo 1° gennaio – 20 ottobre 2024, sono stati registrati 249 omicidi, con 89 vittime donne, di cui 77 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 48 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner (dati statistici pubblicati con cadenza periodica dal Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero dell’interno).

Siamo in presenza di un fenomeno che è espressione di un sistema sociale e culturale tuttora intriso di stereotipi e pregiudizi che, storicamente, discriminano le donne e legittimano la loro subordinazione al possesso ed al controllo maschile. Appare chiaro che la risoluzione di questo grave problema sociale non può continuare ad essere delegata, esclusivamente, all’intervento continuo del legislatore.

Per una concreta ed efficace azione di contrasto è richiesto un cambiamento radicale di carattere culturale che investa sull’educazione dei giovani (demandata alla scuola e alle famiglie) a relazioni affettive basate sull’uguaglianza, sul rispetto reciproco, sull’empatia, sul rifiuto di ogni forma di sopraffazione, possesso, dominio. Non può esserci amore senza rispetto. Occorre una presa di coscienza collettiva poiché – come più volte ripetuto dal Presidente della Repubblica Mattarella – «La violenza contro le donne è violazione dei diritti umani; dietro a ogni violenza sulle donne c’è il fallimento della società».

Le istituzioni e la società civile devono superare quegli archetipi tradizionali secondo cui la donna è preda, la vulnerabilità e la fragilità sono connaturate alla natura femminile, al pari degli stereotipi sessisti e patriarcali che giustificano: la condotta maltrattante del partner come reazione normale alla decisione della donna di chiudere la relazione; le violenze psicologiche o i comportamenti ossessivi come mere carinerie o maldestri tentativi di far cambiare idea alla donna che vuole uscire dalla relazione; la sopraffazione dell’uomo e la colpevolizzazione della donna.

I “reati spia” sono segnali di allarme che le donne devono recepire (e gli operatori del diritto procedere alla puntuale valutazione del rischio per l’incolumità delle persone offese) quale espressione di una patologia della relazione, destinata a sfociare, spesso, negli epiloghi più tragici. Tutta la collettività è chiamata ad evitare la vittimizzazione secondaria ed a scardinare l’idea che le donne siano responsabili della violenza subita.

Denunciare è un atto che richiede coraggio e le donne che denunciano non possono essere segnate, oltre che dal pregiudizio subito da parte dell’autore del reato, anche dal retroterra culturale che le qualifica autrici anziché vittime, finendo, in molti casi, a pensare di meritare una punizione, piuttosto che ricevere tutela sul piano fisico e psicologico.

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