Quest’anno fino al 13 novembre erano 96 le donne uccise, mentre gli ultimi fatti di cronaca che segnano nuovi omicidi lasciano nuovamente sconvolta l’opinione pubblica. Questa tragica contabilità, seppur con un calo statistico, rende evidente che nonostante il problema venga affrontato attraverso interventi normativi, non è ancora contrastato efficacemente da un punto di vista strutturale e culturale.
Negli ultimi anni il nostro ordinamento ha tentato di contrastare la violenza di genere, con misure principalmente dirette a rafforzare l’interesse della vittima a ricevere un’adeguata ed efficace protezione, tuttavia, tali interventi sono ancora insufficienti ad inibire e prevenire la gravità degli atti successivi alla commissione dei c.d. “reati di allarme”. Resta sempre e comunque un’emergenza gravissima, uno stillicidio di perdite di vite umane che, al pari di epidemie o cataclismi, dovrebbe segnare un cambio di passo celere ed urgente di natura preventiva a favore della liberazione della donna da una cultura di dominio maschile oggettivante e mercificante.
La violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, e proprio per questa ragione, è un dramma pubblico non relegabile alla dimensione privata; investe l’intera comunità e tanti settori del nostro convivere sociale e in misura più o meno grave nelle diverse parti del mondo. La riduzione della donna ad oggetto o possesso o merce, è così intrinsecamente parte di antiche e nuove forme di rapporti sociali e giuridici che, senza sradicamento in tutti questi settori, rischia piuttosto di trovare nuovi canali diffusivi e pervasivi. Fintanto che resta accettabile nel diritto e nei rapporti sociali che una donna possa essere comprata per i propri comodi, usata come incubatore, estromessa da attività e funzioni, non riusciremo ad educarci né al rispetto né alla nonviolenza.
Ancor oggi le narrazioni dei femminicidi come un raptus di violenza che tendono ad attenuare o a giustificare gli autori del crimine – riferendosi a comportamenti e/o ruoli delle donne uccise – sono il tentativo di una mentalità violenta che vuole ricacciare il fenomeno della violenza di genere nel privato, per nascondere sotto il tappeto le sue implicazioni culturali, sociali e giuridiche.
Il codice rosso non basta. Come non bastano gli ulteriori aggiustamenti legislativi della “riforma Cartabia”. Bisogna fare di più giuridicamente e socialmente. L’adeguamento del nostro ordinamento alle disposizioni della Convenzione di Istanbul e alle forme di violenza in questa delineate, iniziato nel 2013, non può dirsi concluso. La Convenzione di Istanbul vincola gli Stati ad affrontare il tema della violenza di genere e della violenza domestica in quattro diverse prospettive (i c.d. 4 pilastri), al fine di: Prevenire la violenza, Proteggere le vittime, Perseguire gli autori e offrire delle Politiche integrate.
In Italia se a livello di legislazione molto si è fatto, tanto ancora resta, come ad esempio agire a livello di scoraggiamento della domanda di corpi di donne ad uso e consumo dei propri desideri, dalla maternità surrogata al sistema prostituente, alla tutela della maternità e del diritto alla continuazione della gravidanza in ambito lavorativo e sociale, ad un impegno fattivo di adeguate coperture finanziarie, continue e tempestive, per l’implementazione del Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023 sicuramente meno lacunoso dei precedenti ( 2018 e 2020) ma ancora perfettibile.
Non si può infine non ricordare che grande parte della prevenzione passa per le giovani generazioni e la scuola, di ogni ordine e grado, e verso le quali, noi vecchie generazioni, abbiamo un debito di educazione alla dignità della persona, al rispetto delle differenze e ad una sessualità ed affettività che sappia costruire relazioni sane e responsabili.