La definizione di “sedazione palliativa” proposta da Bert Broeckaert e Juan Manuel Nunez Olarte, chiarisce molto bene lo specifico obiettivo di tale trattamento: “La somministrazione intenzionale di farmaci sedativi nei dosaggi e nelle combinazioni richiesti per ridurre la coscienza di un paziente in fase terminale così da trattare in modo adeguato uno o più sintomi refrattari”. In questa definizione che, non tutto dice su alcune questioni molto complesse sul piano etico, si trova però l’elemento che in modo chiaro distingue accuratamente la sedazione dall’eutanasia: il criterio della proporzionalità terapeutica.
Non esistono infatti ragioni cliniche per uccidere un paziente o accelerarne la morte, mentre potrebbe rivelarsi adeguato un intervento che pur presentando delle problematicità o degli effetti avversi gravi (nel caso specifico, ad esempio, la rinuncia alla coscienza o la possibile anticipazione della morte), è però coerente (e necessario), sul piano clinico, a raggiungere un certo obiettivo di tipo terapeutico o assistenziale non altrimenti ottenibile.
L’obiettivo di una sedazione davvero palliativa è dunque quello di rispondere in modo proporzionato al disagio (distress) procurato da uno o più sintomi non altrimenti trattabili. Nelle raccomandazioni per le linee guida alla sedazione, elaborate dalla European Association for Palliative Care (EAPC) nel 2009, molta attenzione è dedicata alle indicazioni al trattamento, individuate in quello stato di angoscia intollerabile (intollerable distress) provato dal paziente, dovuto a sintomi fisici (tra cui dispnea, dolore grave, convulsioni, emorragie, asfissie), laddove altre opzioni palliative si siano rivelate inadeguate.
E’ evidente come una simile indicazione presupponga che una sedazione palliativa sia caratterizzata dall’intenzione (del paziente, che la richiede o vi acconsente, e dell’equipe curante che la propone e la attua) di alleviare una sofferenza non altrimenti trattabile e, contemporaneamente, della messa in opera di una serie di accorgimenti atti allo scopo.
La medicina non ha il significato di una mera esecuzione dei desideri o delle volontà del paziente. La medicina ha il compito di costruire – anzi, la medicina in fin dei conti è essa stessa – una relazione tra il medico (e la sua equipe) e il paziente (supportato dalla famiglia) in cui certamente le decisioni vengono prese ascoltando il paziente e interpretandone i bisogni e aspirazioni.
Prof. Antonio Gioacchino Spagnolo, Full Professor of Bioethics Director of the Institute of Bioethics and Medical Humanities School of Medicine “A. Gemelli”
Per approfondimenti consultare “Sull’Eutanasia testi e commenti”, Libreria Editirice Vaticana