Il ritorno di un’atmosfera da Guerra Fredda preoccupa sempre di più il nostro continente, stretto nella morsa di Usa e Russia. Il trattato Inf ratificato da Reagan e Gorbačëv nel 1987 in Islanda sospese ufficialmente la corsa agli armamenti tra le due superpotenze. Si avvicinava l’età dell’unipolarismo di marca americana, con il gigante sovietico ormai al collasso, caduto sotto i pesanti colpi di una lotta combattuta rincorrendo la famigerata “parità strategica”.
Il trattato ha sancito lo smantellamento delle armi nucleari di corto e medio raggio installate nel continente europeo, postazione di lancio naturale per entrambe le superpotenze, allentando in tal modo in maniera considerevole la tensione tra Mosca e Washington. La perdita della sfera d’influenza sovietica nell’Europa centro-orientale ha dato così impulso all’integrazione di nuovi Paesi (oggi protagonisti della scena europea) come Polonia e Ungheria, fornendo la possibilità all’Europa di poter organizzare una propria politica eventualmente anche slegata dalla dicotomia Mosca-Washington, tradottasi poi nel 1992 nella costituzione dell’attuale assetto comunitario ancora alla disperata ricerca di un equilibrio politico-economico. In altre parole, il trattato Inf ha garantito per trent’anni la pace e la sicurezza del continente, smantellando tutte le postazioni di lancio missili raggio compreso tra i 500 ed i 5000 km attive sul suo territorio.
Successivamente alle esternazioni dell’establishment americano in merito all’uscita degli Usa dal trattato in seguito a presunte violazioni russe (con tanto di “ultimatum” nei confronti di Mosca), è intervenuto anche l’ultimo leader sovietico Michail Gorbačëv, assoluto protagonista dei fatti dell’epoca, dettosi molto preoccupato per l’attuale approccio della politica globale su una questione delicatissima come quella della proliferazione nucleare. Nonostante la “poca accortezza” con la quale Gorbačëv difese all’epoca gli interessi strategici di Mosca, sembra che l’ex premio Nobel negli ultimi anni abbia voltato letteralmente le spalle a quella politica di “sicurezza regionale” per la quale divenne celebre nei circoli occidentali sul finire degli anni ’80. La successiva espansione delle strutture Nato in Polonia, Romania, Croazia e Bulgaria ha lanciato la Russia verso una nuova corsa agli armamenti che potrebbe minare ancora una volta l’economia precaria di un Paese che ha migliorato di gran lunga la propria condizione ma che presenta ancora pesanti deficit in materia di sviluppo economico.
La cancellazione del trattato Inf è stata avanzata da Washington in risposta a presunte violazioni (non ancora comprovate) da parte della Russia, la quale, però, ha visto mutare notevolmente la propria forza strategica nella sua area cuscinetto dal 1987 ad oggi. Gli americani sembrano dimenticare che, avendo dichiarato spesso di voler dotare di testata nucleare i missili Tomawack, le basi Nato di Deveselu (Romania) e Redzikowo (Polonia) sono attive già dal 2016, costituendo una minaccia assoluta per Mosca. In altre parole, le condizioni strategiche poste in essere da Reagan e Gorbačëv sono mutate considerevolmente a vantaggio delle forze Nato proprio per iniziativa americana. I recenti test missilistici condotti con successo dal Cremlino hanno spinto gli Usa a correre ai ripari, tentando, in tempi non sospetti, di coinvolgere nel discorso anche la Cina. Proprio Pechino, infatti, sta svolgendo il ruolo di attore “silenzioso” in questa partita a scacchi, avendo dispiegato i missili Dong Feng direttamente contro le basi americane attive a Guam e in Giappone. Gli Stati Uniti, dunque, uscendo dal trattato, porrebbero le basi per avere campo libero nel contenimento strategico dei loro avversari a tutto tondo: la Russia e la Cina in primis, ma anche l’Europa che, senza un proprio (e sempre più utopistico) sistema di difesa comune ed indipendente dalla Nato, tornerà ad assumere il ruolo di mero campo di battaglia, uscendone definitivamente ridimensionata nelle sue ambizioni su scala globale.