Rispetto al dibattito preliminare, alle indiscrezioni, alle notizie passate ai giornali “per vedere l’effetto che fa” il testo del disegno di legge sul bilancio 2023 ha riservato alcune sorprese. Cominciamo da quello che è stato un vero e proprio “colpo di scena”: la revisione di opzione donna. In sostanza, opzione donna viene postata a 60 anni + 35 di contributi, poi ci sono anticipazioni a 59 e a 58 anni in rapporto al numero dei figli (rispettivamente uno o due). Non c’è nulla di male a tutelare la maternità anche sul pino pensionistico. Nella stessa piattaforma che i sindacati portano a spasso da anni presso i vari governi (anche quest’ultimo non se li è filati per nulla, nonostante l’apertura di credito di Maurizio Landini) sono previsti benefici per le lavoratrici madri. Ma che senso ha riconoscere un beneficio alle sole lavoratrici madri che scelgono di anticipare la pensione? Se si vuole tenere conto della funzione di riproduzione sociale della maternità, sarebbe più corretto inserire i benefici nell’ambito dei percorsi ordinari al pensionamento, si tratti della pensione di vecchiaia o anticipata/anzianità. Questa soluzione è parecchio discutibile.
L’ordinamento pensionistico consente alla lavoratrice – purché in possesso di un requisito contributivo importante di almeno 35 anni – di anticipare la quiescenza accettando il ricalcolo contributivo ovvero una pensione in teoria ridotta (sempre meno rispetto al momento in cui opzione donna venne istituita perché oggi tutti hanno un periodo dal 2012 ad oggi che è già calcolato col contributivo). Poi riconosce un decalage sull’età in rapporto al numero dei figli, senza rendersi conto che – essendo il calcolo interamente contributivo – un’uscita anticipata dal lavoro comporta anche l’applicazione di un coefficiente di trasformazione più basso e quindi di una pensione di importo inferiore. Ovvero è la donna <optante> che si paga l’anticipo. L’operazione mischia dunque un incentivo (l’età inferiore in rapporto ai figli) con un disincentivo (gli effetti del calcolo contributivo) e quindi non si capisce quale siano le finalità della proroga e della revisione. Altre misure sono parecchio discutibili anch’esse.
E’ confermato il nuovo schema di anticipo pensionistico per il 2023 che consente di andare in pensione con 41 anni di contributi e 62 anni di età anagrafica (quota 103). Ma si aggiunge una decontribuzione del 10% per chi decide di restare al lavoro. La cosa ricorda vagamente il bonus Maroni. In base alla legge n.243/2004 ai lavoratori dipendenti privati che avessero scelto di ritardare il pensionamento anticipato era devoluto in busta paga l’intero importo (esentasse) della contribuzione a carico loro e del datore (il c.d. superincentivo, nel complesso 32,7%). La pensione era calcolata all’inizio del periodo di prolungamento e congelata. Si applicavano solo gli aumenti derivanti dalla perequazione automatica. Per rendere più appetibile l’incentivo, venne stabilito che l’intera posta venisse riconosciuta al dipendente (privato), con l’aggiunta dell’esonero dalla tassazione sul reddito. Il beneficio, entrato in vigore nel novembre 2004 venne a scadenza il 31.12.2007. L’operazione fu un disastro; per un triennio vennero erogate somme importanti a persone che già avevano una posizione solida nel mercato del lavoro. Molte delle quali tornarono al lavoro nello stesso posto dopo il pingue bottino del superbonus (il 32,7% della retribuzione esentasse arriva ad un importo significativo a fronte di un taglio del 6% ovvero del 2% per tre anni).
Tornando al ddl di bilancio viene da chiedersi che senso abbia l’incentivo a rimanere oltre quota 103. Servirsi di questa via d’uscita è un’opzione che, come dimostra l’esperienza compiuta con quota 100, non viene condivisa da una quota importante dei possibili beneficiari. Con questo provvedimento saranno ‘’premiati’’ con la decontribuzione anche coloro che avrebbero continuato a lavorare comunque. C’è poi la manipolazione della perequazione automatica che parte da un superbonus (120% dell’inflazione) per le pensioni minima, dalla copertura del 100% dell’inflazione per trattamenti fino a 2,1mila euro mensili lordi; per le fasce di retribuzione superiore è previsto un decalage fino al 35%.
- Rivalutazione trattamento minimo (TM) di pensione: 120%.
- Rivalutazione fino a 4 volte il TM: 100%.
- Rivalutazione fino a 5 volte il TM: 80%.
- Rivalutazione tra 5 e 6 volte il TM: 55%.
- Rivalutazione tra 6 e 8 volte il TM: 50%.
- Rivalutazione tra 8 e 10 volte il TM: 40%.
- Rivalutazione oltre 10 volte il TM: 35%.
La misura ha una durata biennale. Ma con i tempi che corrono e i tassi di inflazione previsti l’attivazione di una super perequazione convenzionale per le pensioni minime determinerà un crescente squilibrio nel sistema premiando chi ha lavorato poco e versato pochi contributi (già a carico per l’integrazione al minimo della fiscalità generale per 21 miliardi l’anno) a scapito di chi ha lavorato e versato a lungo. Bisognerà pur cominciare a dire che coloro che percepiscono una pensione minima non sono degli sventurati ‘’figli di un destino cinico e baro’’, ma molto spesso degli evasori. In base alla ”dottrina Giorgetti” (le maggiori spese devono essere coperte, giustamente, nell’ambito dello stesso settore) il governo intende finanziare quota 103 con riduzioni della perequazione automatica per le pensioni superiori a 2.100 euro mensili. Non si sono accorti che in questo modo, stante quel livello di pensione, saranno numerosi beneficiari di quota 103 a pagarsi l’anticipo, attraverso il taglio della rivalutazione. Con quota 103 poi il governo ha introdotto un nuovo scalino. Mettiamo il caso di un soggetto che nell’anno in corso non sia riuscito ad usufruire di quota 102 perché, pur avendo 64 anni non aveva ancora maturato il requisito contributivo di 38 anni. Con le nuove norme i 38 anni diventeranno 41. E ovviamente crescendo la permanenza al lavoro aumenterà anche l’età anagrafica. In sostanza, in questo caso (che non è ”di scuola”, ma molto pratico) la quiescenza si allontana.
Quanto alla flat tax ognuno ci ha messo la sua: quella per le partite IVA e quella ‘’incrementale’’. Si estende la flat tax fino a 85mila euro per autonomi e partite Iva e si ampliano le misure per la detassazione ai premi dei dipendenti. I premi di produttività saranno detassati, per i dipendenti con una aliquota al 5% per fino a 3.000 euro. E’ prevista una “tregua fiscale” per cittadini e imprese che in questi ultimi anni si sono trovati in difficoltà economica anche a causa delle conseguenze del COVID-19 e dell’impennata dei costi energetici. Il RdC per ora se la cava con qualche piccola asportazione. Dal 1° gennaio 2023 alle persone tra 18 e 59 anni (abili al lavoro ma che non abbiano nel nucleo disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni d’età) è riconosciuto il reddito nel limite massimo di 7/8 mensilità invece delle attuali 18 rinnovabili. E’ inoltre previsto un periodo di almeno sei mesi di partecipazione a un corso di formazione o riqualificazione professionale. In mancanza, decade il beneficio del reddito. Si decade anche nel caso in cui si rifiuti la prima offerta congrua.
Poi, a stare alle dichiarazioni del presidente Meloni in conferenza stampa, dal 2024 il RdC dovrebbe essere abolito per fare posto ad un altro istituto per l’inclusione sociale. Chiunque sappia come stanno le cose è autorizzato a sedersi con un bel pacco di pop corn per assistere a come e a quando i Centri per l’impiego organizzeranno l’anno prossimo corsi di sei mesi e saranno in grado di formulare una proposta di lavoro ritenuta ‘’congrua’’. Si segnalano nel comunicato del governo questi ulteriori provvedimenti: l’assegno unico per le famiglie con 3 o più figli (610 milioni) per il 2023 sarà maggiorato del 50% per il primo anno, e di un ulteriore 50% per le famiglie composte da 3 o più figli. E’ confermato l’assegno per i disabili. Saranno previste agevolazioni per assunzioni a tempo indeterminato con una soglia di contributi fino a 6 mila euro per chi ha già un contratto a tempo determinato e in particolare per le donne under 36 e per i percettori del reddito di cittadinanza.