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I vantaggi dell’immunità ibrida

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Lo sviluppo di un’immunità ibrida (vaccinazione + infezione), presenta una serie di vantaggi, anche per quel che riguarda la memoria specifica nei confronti della proteina spike, indotta a seguito di una successiva vaccinazione. Infatti (Véronique Barateau e altri), risulta che una precedente infezione da SARS-CoV-2 aumenta i titoli delle risposte anticorpali specifiche nei confronti della proteina spike di SARS-CoV-2 indotti da una successiva vaccinazione ed inoltre modifica il pool di cellule B della memoria specifica verso SARS-CoV-2. Entrambe queste situazioni sono compatibili con una maggiore protezione antivirale a livello delle mucose.

L’uso corretto di ambienti luminosi per mitigare gli effetti del lockdown di COVID-19 e di eventuali altre situazioni di emergenza sulla qualità del sonno e l’affaticamento degli adolescenti, è stato oggetto di una ricerca (Peijun Wen e altri) che ha coinvolto 66 soggetti di età media intorno ai 12 anni che hanno partecipato ad uno studio durato 28 giorni. Gli adolescenti sono stati esposti a diversi ambienti luminosi Led per un’ora ogni sera. I risultati relativi alla qualità del sonno auto-riferita hanno indicato che l’ambiente a bassa luce migliorava la qualità del sonno, i valori sierici dell’urea e dell’emoglobina e si associava ad un ridotto affaticamento oltreché ad un generale miglioramento delle prestazioni, rispetto ad un ambiente ad alta luminosità. L’effetto di un anticorpo monoclonale anti CD3 (foralumab), somministrato per via nasale a soggetti con infezione da COVID-19 da lieve a moderata (Thais G. Moreira), è in grado di ridurre l’espressione dei geni coinvolti nella risposta infiammatoria delle cellule T ed in particolare, chi ha ricevuto questo anticorpo monoclonale presenta livelli più elevati di un fattore neurotrofico derivato dal cervello.

Gli effetti di questa ricerca potrebbero essere utili per somministrare sostanze in grado di modulare il sistema immunitario, senza causare particolari effetti collaterali e ridurre l’infiammazione sia in corso di COVID-19 che di altre malattie. Questo studio è stato oggetto di un commento in una rivista generalista (Emily Harris) che ha sottolineato l’ importanza dei risultati per futuri sviluppi terapeutici anche al di fuori di COVID-19. Una revisione sistematica ed una meta-analisi (Vasiliki Tsampasian e altri) hanno indagato i fattori di rischio osservati nella condizione di post COVID-19. In particolare, sono stati analizzati tutti gli studi pubblicati in letteratura, dall’inizio della pandemia al 5 dicembre 2022, che hanno studiato i fattori di rischio e predittivi di post COVID-19. Dalla revisione sistematica e dalla meta- analisi è risultato che alcune caratteristiche demografiche, come l’età avanzata ed il sesso femminile, la presenza di co-morbidità e di COVID-19 grave si associavano ad un aumentato rischio di long COVID, mentre la vaccinazione esercitava un effetto protettivo contro lo sviluppo di questa condizione clinica.

In tema di long-COVID, uno studio (Yan Xie e altri) effettuato su una coorte di oltre 280.000 pazienti, ha rilevato che nelle persone con l’infezione da SARS-CoV-2 che presentavano almeno un fattore di rischio per la progressione verso la malattia grave, il trattamento con il farmaco antivirale paxlovid, entro 5 giorni dal risultato di un tampone positivo per SARS-CoV-2, si associava ad un basso rischio di long COVID. Significativo che questo risultato sia indipendente dallo stato vaccinale e dall’esistenza di una pregressa infezione. La conclusione a cui giunge questa ricerca è che il trattamento con paxlovid, effettuato nella fase acuta di COVID-19, può ridurre il rischio di insorgenza di long COIVD. Il paxlovid è stato oggetto anche di uno studio condotto in oltre 7.000 soggetti trattati con questo farmaco, messi a confronto con 126.000 pazienti non trattati (Joseph A Lewnard e altri). I risultati ottenuti hanno mostrato che questo farmaco antivirale ha un’efficacia complessiva del 56,3% nel prevenire il ricovero ospedaliero ed il decesso e questa percentuale aumenta al 79,6% quando viene somministrato entro 5 giorni ed all’89,6%, se somministrato lo stesso giorno della positività del tampone. Sulla base di questi risultati, si può concludere che paxlovid è altamente efficace nel ridurre il rischio di ricovero ospedaliero e di morte nei soggetti che presentano un tampone positivo per SARS-CoV-2.

L’efficacia di un farmaco monoclonale (ravulizumab) che inibisce la frazione 5 del complemento, è stato oggetto di uno studio condotto in pazienti con COVID-19 grave che richiedevano la ventilazione meccanica (Djillali Annane e altri). Anche se dai risultati è emerso che questo farmaco non migliora la sopravvivenza di questi pazienti, non bisogna – secondo gli estensori della ricerca – abbandonare lo studio dei farmaci in grado di inibire la frazione 5 del complemento, dal momento che questi potrebbero rivelarsi utili in diversi contesti di malattia. L’impiego di immunoglobuline iperimmuni contro COVID-19, è stato oggetto di uno studio (Andrea Alemany e altri) clinico randomizzato in doppio cieco, controllato con placebo, effettuato in individui asintomatici con infezione da SARS-CoV-2, con l’obiettivo di prevenire la malattia. I risultati ottenuti suggeriscono che la somministrazione sottocutanea di queste immunoglobuline ad alto titolo ad individui asintomatici con infezione da SARS-CoV-2 è sicura, ma non impedisce lo sviluppo di COVID-19 sintomatico e per questo motivo non dovrebbe rientrare nell’attuale strategia terapeutica. L’attuale disponibilità dei vaccini bivalenti determina, specie nei soggetti fragili per età e co-morbidità, un innegabile miglioramento della malattia, riducendo le forme gravi di COVID-19. È comunque aperto nella comunità scientifica il dibattito se il richiamo con il vaccino bivalente debba essere esteso anche ad altre fasce della popolazione oltreché agli anziani.

Di questa problematica si è fatto interprete una riflessione (Peter W. Marks) che ha sottolineato come i richiami bivalenti contro le sotto varianti di Omicron, BA.4 e BA.5, siano efficaci nel ridurre l’incidenza di malattia sintomatica, l’ospedalizzazione e la morte in tutte le fasce di età, anche tra le persone di età compresa tra 18 e 49 anni già vaccinate in precedenza. Per questo motivo, viene prospettato l’impiego del vaccino bivalente, similmente a quanto oggi avviene per il vaccino influenzale in maniera estesa anche nella popolazione generale, come un importante intervento di sanità pubblica. Questa posizione non è però condivisa da altri (Paul A. Offit), dal momento che nell’attuale situazione epidemiologica di endemia del virus, la somministrazione del richiamo vaccinale dovrebbe essere indirizzata a quella categoria di soggetti che hanno maggior probabilità, se infetti, di essere ricoverati in ospedale ed in primo luogo le persone anziane ed immuno-compromesse che presentano più condizioni di fragilità o sono in gravidanza.

Prof. Roberto Cauda: