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Una scuola che non educa

Credere che bambini e ragazzi possano impegnarsi nello studio solo per profitto significa non aver capito la loro ricchezza e bellezza. Gli studenti imparano molto più in modo gratuito e spontaneo. Il gioco in particolare è uno strumento di apprendimento fenomenale perché è gioioso, entusiasmante, dinamico, relazionale, interattivo, vario, creativo. Bambini e ragazzi imparano le regole ludiche in un battibaleno, al contrario di quelle matematiche o chimiche.

Essi possiedono una naturale curiosità per le cose nuove e belle come sono quelle che la scuola vorrebbe insegnare loro; ma la scuola non ha fiducia, non crede nella loro forza di ricerca, o forse non pensa sia “bene” liberarla. Essa induce i propri alunni ad apprendere per profitto, non per entusiasmo e desiderio. Così facendo innesta già nei bambini un’idea triste della vita, del mondo, di se stessi. In loro si instilla la convinzione che le cose buone possono essere fatte solo per premio o punizione, s’inducono a credere che il loro essere gratuiti è solo un sogno temporaneo dal quale dovranno svegliarsi per divenire adulti. Si insegna loro che la gratuità non serve, che è più importante trarre profitti che amare il proprio lavoro.

Seppure sia evidente come tale sistema di incentivazione non serva a sviluppare le conoscenze richieste (è minima la percentuale di coloro che riescono bene a scuola), si continua a far apprendere valanghe di nozioni sotto minaccia del voto come se fosse un dogma assoluto. Se anche ciò fosse vero, per per ipotesi avesse ragione questa mentalità, si dovrebbe paradossalmente dedurne che la maggior parte dei giovani non è in grado di imparare le cose di scuola.

In realtà ciò che osta alla scuola di raccogliere frutti è il non voler credere nei suoi ragazzi. Il voto, infatti, non solo insegna il profitto ma può creare stati di sofferenza e di disagio che tendono ad ampliarsi nel tempo. Tale forma di valutazione che dovrebbe servire a giudicare i livelli di apprendimento, diviene in pratica per chi la riceve un atto di giudizio sulla persona.

I giovani che prendono quasi sempre brutti voti vengono confermati ogni giorno della loro (presunta) incapacità. Per loro la valutazione non è più una semplice misurazione ma un giudizio pesante che toglie le forze e la voglia di impegnarsi perché “è inutile, tanto non capisco”.

L’inferiorità che sentono di avere sul modello che l’istruzione tradizionale gli propone viene recepita come mancanza grave nella loro capacità e potenzialità. Fallimento da cui potranno riprendersi ma nel mondo lavorativo, una volta fuori dalla scuola, dall’ambiente che avrebbe dovuto aiutarli a scoprire e valorizzare i propri doni.

Eppure la scuola sa che il voto non è una “semplice misurazione“, altrimenti non lo userebbe come forma di pressione per costringere chi va male allo studio. Per costringere anche chi va bene, cioè coloro che sono capaci di accettare il ricatto e caricarsi del peso dell’ansia e delle nozioni da apprendere. Questi guadagneranno fiducia e una maggiore sicurezza relazionale e affettiva. Verranno a trovarsi in una posizione dominante rispetto ai compagni, riceveranno attenzione dagli insegnanti e approvazione dai genitori.

Ma neanche per loro è tutto positivo. Senz’altro avranno trovato un motivo per studiare ma in tal modo la scuola li pone in corsa contro gli altri, una corsa che dovranno sempre più accelerare per mantenere i suoi standard. Li spingeranno all’arrivismo, li esporrà a cocenti delusioni senza peraltro fargli amare veramente lo studio.

La scuola del voto non libera le capacità ma anzi tende a rendere prigioniere le molteplici forme di intelligenza di cui le persone sono dotate, tende a ignorare la globalità della persona per sollecitarne invece gli aspetti che maggiormente ritiene funzionali al sistema sociale. La scuola del voto non è quella che dice di essere, preoccupata di orientare i giovani, è pensata per giudicare e selezionare, non quella dell’educazione ma della formazione, c’è la scuola che plasma e modella i giovani per farne cittadini allineati e consenzienti.

Tratto da “A scuola senza profitto”, ed. “Sempre”

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