Pian piano realizziamo che il mondo non si regge più sulle gambe degli Stati. E’ questione complessa, non c’è dubbio, e guardata sul piano più caro alle singole persone, quello della partecipazione, propone una questione democratica globale. Qui, non stiamo a riflettere per categorie politico-giuridiche, bensì per i riflessi sociali.
Se la Lagarde (direttore del Fondo Monetario) conferma che “come nell’economia molte delle dinamiche non possono essere risolte dai singoli paesi”, allora dobbiamo allarmarci, perché questo messaggio non ci viene comunicato dalle nostre istituzioni e neppure dalle forze politiche. Diviene legittimo, anzi doveroso, domandarsi quale livello di partecipazione ci viene garantito, come cittadini, se siamo confinati in bolle territoriali ininfluenti nella determinazione dei contenuti della vita quotidiana. Se le nostre istituzioni accettano di giocare ruoli di regolazione, cioè di fare leggi, che non si preoccupano di essere funzionali ad una globalizzazione non benevola. E questo è certo: se la Lagarde invoca una globalizzazione dal “volto più umano, che sappia redistribuire la ricchezza”, questo significa che, nonostante lo schieramento imponente degli apparati della comunicazione globale ci tenga lontani dalla verità, chi governa il mondo è perfettamente consapevole di molte gravissime deficienze di funzionamento del modello globale. Qui non le esaminiamo ed affrontiamo, se non una, per avere una base di ragionamento e per proporre un terreno di impegno costante, quotidiano, generoso verso la democrazia sostanziale.
A mio avviso, non funziona affatto la tutela del lavoro e dei lavoratori. Non c’è Carta, Trattato, Costituzione, non c’è Stato che, sul piano formale, non la indichi come principio, come fine generale, come obbligazione politica. Ma a ben riflettere, i venti che indirizzano le vite delle persone, nel lavoro, sono soltanto venti economicistici. Noi veniamo da una stagione di Job’s Act, i francesi ci sono dentro, e non possono farla passare come stagione di tutela del lavoro e dei lavoratori. Vuole l’onestà intellettuale che si dica che queste leggi sono figlie di una visione globalizzata ingovernata politicamente e del tutto lasciata in balia di supposte regole di concorrenza economica internazionale.
Dai tempi della domanda di liberarsi di lacci e lacciuoli, agli albori della globalizzazione, ad oggi, in piena età globale, la tutela del lavoro è via via decaduta, in questa condizione di consapevolezza trasmessaci dalla politica, che avremmo partecipato vantaggiosamente a nuovi processi di produzione, quelli scaturiti dalla fine delle politiche dei blocchi. Ovviamente, in nessun caso, sono stati accesi i riflettori, neppure dalle istituzioni internazionali, sulle contestuali tragedie globali messe in movimento in termini mancanza di controlli democratici e di tutele dei più deboli. Così i grandi processi di delocalizzazione hanno avuto un solo risultato, di produrre enormi profitti, di non affrancare dalla loro condizione di debolezza i lavoratori dei paesi più “convenienti”, e, udite udite, di provocare enormi indebolimenti dei lavoratori dei paesi più forti, con le imprese più forti. Il tutto condito da fenomeni di corruzione globale sui quali nessuna autorità internazionale ha dato prova di voler intervenire. E’ questo il punto cui si è pervenuti, così preoccupante da spingere il Fondo Monetario, evidentemente in possesso di conoscenze approfondite di ciò che è successo e di previsioni circa ciò che potrebbe succedere, ad invocare “redistribuzione di ricchezza, limiti ai privilegi, tutela dei più deboli”.
Senza voce e senza rappresentanza, i cristiani colgono i segni di questo “sviluppo disumanizzato” che ha assunto come motore “l’asservimento dell’uomo a mezzo per lo sviluppo” e sono in ritardo, gravemente in ritardo ad organizzarsi, a far sentire la propria voce che è, emblematicamente la seguente: il lavoratore tailandese, o filippino o siriano o africano deve essere aiutato ad avere lo stesso livello di protezione del lavoratore italiano o francese o tedesco o nordamericano! Se la crescita della ricchezza si ottiene sulla pelle di fratelli sconosciuti, dobbiamo respingerla. Noi vogliamo un modello sociale globale, se è vero che i singoli Paesi e le loro aggregazioni regionali non possono assicurare processi di giustizia sociale: noi dobbiamo testimoniare con forza, organizzandoci, che “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”.
Se l’economia globale poggia su chiare politiche di accettazione di dumping sociale, intendiamoci dumping volutamente ignorato o, addirittura, promosso, allora è inevitabile una risposta protezionistica che riceve una copertura di consenso popolare. I lavoratori sono spinti contro i lavoratori, i popoli contro i popoli, la guerra diviene una prospettiva concreta. Ecco, diamo vita ad una rappresentanza politica rinnovata, che abbia un forte afflato universalistico, che sia proiettata verso il mondo non per far valere l’interesse della propria economia ma l’interesse dell’uomo. Non è un’utopia, basta crederci.