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Un Paese di cartapesta

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Ormai non c’è più bisogno neanche del terremoto. L’Italia crolla da sola. Scuola dopo scuola. Pilone dopo pilone. Viadotto dopo viadotto. Galleria dopo galleria. Sottopasso dopo sottopasso. Le molto cosiddette ‘opere pubbliche’ si sgretolano, si ripiegano su se stesse, si fanno polvere. Come fossero di cartapesta, neanche di cartongesso. Plastici in dimensione reale. Ma solo all’apparenza, perché basta davvero un niente e rovinano a terra come quinte di una finzione teatrale.

No, non c’entrano niente il terremoto, il dissesto idrogeologico, le alluvioni, gli smottamenti. No, quella che viene giù è, banalmente, l’Italia degli appalti al massimo ribasso, delle mazzette su ogni centimetro di asfalto, dei contenziosi infiniti davanti ai Tar, delle estenuanti processioni burocratiche, degli arbitrati milionari, dei collaudi virtuali. E’ l’Italia della carta – carta appunto – bollata, dei mega-lotti e dei piccoli sotterfugi, dei finti controlli e dei veri affari.

E’ l’Italia dei grand commis pubblici, maestri del comma e del capoverso ma soprattutto delle pubbliche relazioni, frequentatori solerti dei circoli che contano e delle consorterie che influenzano, che confezionano codici alti due metri e pretendono tutti gli allegati progettuali vistati e timbrati, il Durc a posto e in tempo – anche quando è l’Inps a impiegarci mesi per rilasciarlo – e ogni altro inutile adempimento formale, ma che poi si fanno di nebbia – o peggio – quando i cantieri sono aperti.

Ma non è stato sempre così. C’è stata un’altra Italia, anche delle opere pubbliche. Un Paese di uomini oggi dimenticati, «che hanno fatto l’impresa». Il 19 maggio del 1956, il giorno in cui su uno sterrato di poche centinaia di metri viene dato inizio ai lavori, non c’è nulla: non un progetto definitivo, non le tecnologie, non le competenze professionali, non i soldi necessari. Il 4 ottobre del 1964 – appena otto anni dopo e in anticipo sui tempi previsti – una striscia di asfalto lunga 755 chilometri collega Milano con Napoli, il Nord con il Sud: è l’Autostrada del Sole, 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 57 raccordi con una media di 94 km di strada finita all’anno, su uno dei tracciati più difficili al mondo. Nessuno è mai riuscito a superare questa media. E, non per caso, il 30 giugno del 1964, a New York, al Moma, si inaugura una mostra che celebra «la più bella autostrada del mondo».

Durante quegli otto anni – racconta Francesco Pinto ne «La strada dritta» – un esercito di manovali, carpentieri, tecnici, progettisti combatte per rispettare la promessa della sua costruzione. E su quella strada trova il suo destino. Lì va a cercarlo Fedele Cova, l’amministratore delegato della Società Autostrade, il regista dell’impresa, che, il giorno dell’inaugurazione, passeggiando fra le corsie deserte e il manto liscio di asfalto, chiosa: «Speriamo di riuscire a mantenere nei prossimi anni la schiena dritta». Un auspicio non realizzato. Purtroppo.

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