Fa molto discutere Il documento elaborato dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva relativo alle linee guida da seguire in caso di scarsità di risorse : “Triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse”.
In tale atto sono indicate le tipologie di pazienti destinati a non essere ricoverati in Terapia Intensiva e quindi “destinati a morire”: “Età superiore a 85 anni, età superiore a 75 anni accompagnata da almeno uno dei seguenti criteri: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica stadio III, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e sopravvivenza stimata a meno di 24 mesi”.
Come purtroppo spesso accade il problema inerente la tutela della vita viene affrontato a valle per cui: non essendoci posti letto di rianimazione sufficienti, occorre selezionare quali siano i pazienti che devono morire. Tale problematica, seppur reale, andrebbe invece risolta a monte prevedendo il fabbisogno in caso di necessità, stanziando le risorse necessarie ed aumentando quindi per tempo il numero di posti nelle terapie intensive.
Questa filosofia del “lasciar morire” fa tornare in mente i campi di concentramento dove all’arrivo dei treni, si veniva selezionati: a destra la vita con gli abili al lavoro, a sinistra la morte a cui venivano destinati anche i vecchi.
Allora ci si chiede cosa sia cambiato in questi ultimi ottant’anni se alcuni criteri riguardo la cultura dello scarto di Papa Francesco sono restati gli stessi, quali l’età o le patologie invalidanti? E come ci si dovrà comportare in caso di malattia da Covid-19 dell’anziano: andare sempre e comunque in ospedale con la speranza magari di poter sopravvivere o con la certezza di morire in solitudine se vengono negate le cure?
Il dilemma del “a chi dare l’ultimo letto” è una problematica etica che da sempre ha coinvolto la coscienza del Clinico, ma che certamente non può e non deve esser risolta con linee guida asettiche, senza una valutazione ponderata che non può che esser di competenza solamente del medico che, solo ed in accordo col paziente, deve saper valutare la condotta clinica da seguire in quel momento.
Certamente non deve essere soltanto l’età o la patologia associata, peraltro in molti casi risolvibile con le moderne terapie, che deve guidare il Medico nelle sue decisioni; a chi dare l’ultimo letto : al giovane alcolista, tossico e magari pluripregiudicato? o all’anziano padre di famiglia che dirige un’azienda con un gran numero di operai e quindi di famiglie che rischiano di rimanere senza sostentamento in caso di suo decesso?
Decisioni difficili da prendere e che è ben comprensibile non possono essere semplicemente dettate da indirizzi sanitari o dal profitto di un’azienda ospedaliera. Ed è qui che rientra con forza la figura del Medico spesso ridotto negli ultimi anni ad esser chiamato non più a donare salute, come ippocraticamente nel suo DNA, ma al contrario in molti casi ad essere un mero esecutore di morte DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento).
La grande questione etica che emerge nella discussione può essere riassunta sinteticamente in queste tre brevi parole: Se, Come e Quando. Se Interrompere le cure, in che misura ed eventualmente quando interromperle. A questi quesiti, l’unica figura in scienza e coscienza che può rispondere non può che essere quella dell’Operatore Sanitario e non certamente semplici linee guida stilate da tecnici e che, per quanto ponderate, non possono tenere conto dell’essere umano nella sua dignità di persona e che pertanto, in quanto tale, merita considerazione e rispetto.
Certamente non è pensabile l’accanimento terapeutico, peraltro vietato dal nostro codice deontologico, così come non si può essere discriminati in base all’età o a parametri opinabili, prescindendo comunque sempre dall’ incorrere nell’abbandono terapeutico, come in maniera chiara si evince dalla scritta sul portale dell’Hotel Dieu, il più antico ospedale di Parigi: “Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò”.