Intervento

Tutela della vita: il monito della Corte Costituzionale non resti inascoltato dal legislatore

Con la sentenza 18 luglio 2024, n. 135 la Corte costituzionale ritorna ad occuparsi della disciplina sul fine vita. La decisione si colloca nel solco della nota pronuncia del 2019, la c.d. Pronuncia Cappato, e costituisce l’occasione per ancora meglio puntualizzare i requisiti di accesso al suicidio assistito. La Corte rigetta tutte le questioni che gli sono state proposte dal Tribunale di Firenze, che miravano ad estendere ulteriormente l’area della non punibilità del suicidio assistito.

Il Giudice delle leggi riafferma la sua giurisprudenza sulla tutela della vita, bene che trova collocazione in “posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona”. Diritto alla vita riconosciuto dall’art.2 della Costituzione e da tutti i documenti internazionali che esplicitamente lo proteggono (art. 2 della Cedu, art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Il diritto alla vita rientra tra quelli che occupano nell’ordinamento una posizione, per così dire privilegiata, in quanto appartengono “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, presupposto per l’esercizio di tutti gli altri diritti inviolabili. Perché – afferma ancora la Corte – “ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge”.

La decisione ribadisce come a tale fondamentale diritto corrisponde l’adempimento del dovere dello Stato di tutelare la vita umana, così avvalorando la scelta già espressa con la sentenza n.50 del 2022 che ha dichiarato l’inammissibilità del referendum abrogativo. Invero, l’esito positivo della consultazione referendaria avrebbe lasciato la vita umana in una situazione di insufficiente protezione in aperto contrasto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale per via degli art. 117 e 11 della Costituzione.
Sebbene il Giudice delle leggi rifiuti l’idea che l’indisponibilità della vita umana possa essere tutelata perché funzionale all’interesse dello Stato alla conservazione dei propri cittadini, il mantenimento di una “cintura di protezione” a tutela della persona contro scelte autodistruttive (realizzate attraverso la doppia incriminazione dell’omicidio del consenziente e di ogni forma di istigazione al suicidio), assolve allo scopo di proteggere coloro che attraversano difficoltà e sofferenze.

Siffatta scelta è rivolta a scongiurare un gesto irreparabile, non sufficientemente meditato, da parte di persone gravemente ammalate che possono subire interferenze di ogni genere, avendo la percezione che la propria esistenza sia divenuta un peso per i familiari. Il pensiero della Corte è rivolto a persone anziane o che soffrono di depressione che vivono in solitudine e che mostrano particolare fragilità psicologica, le quali potrebbero essere indotte a “farla finita”, qualora l’ordinamento ammettesse la cooperazione di chiunque ad una scelta suicidaria, magari per ragioni egoistiche.
Al contrario, è compito della Repubblica realizzare politiche pubbliche volte a fornire aiuto a chi versa in situazioni di debolezza, rimuovendo gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. D’altra parte, la Corte ribadisce il diritto fondamentale di ogni persona affetta da patologie di rifiutare il trattamento sanitario, in assenza di una precisa disposizione che lo renda obbligatorio. Anche quando si tratta di assicurare la sopravvivenza di un paziente, questi ha il diritto di rinunciare alle cure.

Si tratta di un diritto dal tono costituzionale; infatti, nessuno può essere obbligato e tanto meno fisicamente costretto a sottoporsi ad un trattamento sul proprio corpo, poiché in caso contrario verrebbe violato il diritto alla vita privata e di autodeterminazione. Tale diritto, strettamente correlato al principio di dignità, si deve esercitare nel contesto della “relazione di cura e di fiducia” tra paziente e medico, che la legge n. 219 del 2017 valorizza e promuove. Tale alleanza si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la responsabilità del medico. Resta indubbio il riconoscimento al paziente della libertà di lasciarsi morire, mediante il rifiuto o la richiesta di interruzione di trattamenti necessari a sostenere le funzioni vitali. Con l’attuale decisione, la Corte ribadisce l’ingiustificabilità sul piano costituzionale di un divieto assoluto di aiuto al suicidio e precisa che esso comprende non solo quello di interrompere, ma anche quello di rifiutare ab origine l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale. La nozione di trattamenti di sostegno vitale, come l’essere tenuti in vita dal respiratore meccanico, deve essere interpretata dai medici e dai giudici in modo da includere anche procedure, come l’aspirazione del muco delle vie bronchiali, compiute da personale sanitario o dai caregivers che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo.

La Corte ha ribadito il forte auspicio che il Servizio sanitario nazionale garantisca a tutti i pazienti l’effettivo accesso alle cure palliative. Resta fondamentale l’individuazione del punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione e il dovere di tutela della vita, nell’ambito della cornice valoriale definita dalla giurisprudenza costituzionale. Compito che spetta al legislatore, con l’auspicio che il monito della Corte non rimanga ancora una volta inascoltato.

Ida Angela Nicotra

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