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Trump e il nuovo protezionismo made in Usa

Appena passata la “tempesta perfetta” della riforma fiscale trumpiana che ha avuto, sembra, già dei ritorni interessanti in campo salariale e di investimenti, locali ed esteri, sul territorio dell’Unione, ecco che una nuova iniziativa che farà discutere in tutto il mondo viene posta in cantiere: la reintroduzione di pesanti dazi doganali per alcune tipologie di merci.

Non dovrebbe, in effetti, sorprendere la notizia, poiché anche la difesa della produzione industriale domestica e il rilancio del mercato del lavoro erano punti fermi del programma presentato da Trump e sostenitori nella corsa alla Casa Bianca ma, effettivamente, l’anno due della presidenza di “the Donald” sembra essere partito con l’acceleratore.

In un articolo dello scorso anno sull’argomento avevo esordito con una citazione attribuita a Bastiat, che “Dove non passano le merci, passano gli eserciti”, per indicare come il mercato sia uno dei più forti dissuasori delle guerre poiché è sempre più redditizio ed efficiente il commercio rispetto a una qualsiasi manovra bellica; ovviamente una guerra può essere combattuta con diversi metodi e quello dei dazi all’importazione è uno di essi, forse il più “soft” poiché è sempre prodromo all’apertura di un tavolo contrattuale futuro ma questo è un altro discorso.

Gli Usa, comunque, non sono mai stati un Paese che garantisse una vera libera circolazione delle merci, salvo che verso quegli Stati aderenti a specifici trattati bilaterali, e le importazioni sono soggette a un preciso tariffario relativo ai dazi d’importazione (consultabile sul sito hts.usitc.gov) a cui vanno aggiunte delle tasse di vendita che possono arrivare anche oltre l’8% del prezzo e a una “harbor maintenance fee” che è pari allo 0.125% ogni 1'000 usd di valore di carico.

A fronte di questo scenario preesistente perché fa così scalpore l’iniziativa del presidente americano (e della maggioranza che lo sostiene, va precisato)?

Oltretutto osservando che i nuovi dazi, per quanto pesanti, riguardano solo due precise categorie merceologiche, pannelli solari e lavatrici?

La prima risposta, maliziosa, potrebbe essere quella relativa all’origine della proposta, soprattutto da parte della stampa italiana che già lo scorso anno bacchettò il neoeletto Donald Trump per una presunta ritorsione verso l’Ue con l’apposizione di dazi alle merci europee (anche se, a dire il vero, il provvedimento incriminato fu della precedente amministrazione Obama visto che fu approvato e pubblicato a fine 2016 ma tant’è…).

La risposta reale potrebbe, invece, nascondersi sia nelle proteste di Cina e Corea del Sud che minacciano di ricorrere direttamente alla Wto sia, considerando solo il settore dei pannelli solari, nel legame tra questa iniziativa protezionista e le politiche energetiche promosse dall’attuale amministrazione statunitense.

Non è un caso che il taglio degli incentivi alle energie rinnovabili e un forte dazio all’importazione dei pannelli solari dalla Cina renderebbero meno conveniente il ricorso a questi strumenti e porrebbe l’amministrazione americana in ancor maggiore contrapposizione con tutti i firmatari dei vari trattati sull’ambiente negli ultimi anni.

A di là dei meri numeri relativi ai nuovi dazi (30% sui pannelli solari e 20% sulle lavatrici coreane, almeno per il primo anno) la questione relativa alle barriere d’accesso ai mercati è la cosa più interessante perché se pur vero che limitando o penalizzando l’importazione dall’estero, che risulta più conveniente di quella autoctona nel rapporto qualità/prezzo, si andrebbero a favorire i produttori locali con un conseguente aumento della domanda di lavoro e una ricaduta positiva, nel breve termine, su occupazione e reddito disponibile, dall’altro si assisterebbe a un innalzamento dei prezzi per i consumatori, riducendone, di fatto, il potere d’acquisto.

Mentre la liberalizzazione del mercato, nel medio periodo, porta sempre a un vantaggio per tutto il sistema, se fosse condivisa da tutti i player ovviamente, la chiusura delle frontiere al commercio, anche solo con l’apposizione di forti dazi, va a colpire soprattutto l’ultimo tassello della filiera di consumo che pagherà il sostegno alle imprese nazionali, magari anche inefficienti e poco produttive, con una riduzione del potere d’acquisto e, quindi, di fatto, con una svalutazione reale dei salari.

Forse qualcuno ricorderà il “superbollo” che vigeva in Italia sulle auto di cilindrata superiore ai 2.000 cc o sulle auto diesel? Fu introdotto per avvantaggiare i produttori italiani tra gli anni 70 e 80 che erano concentrati sulle utilitarie a benzina, tanto che anche Ferrari arrivò a produrre la 208 che montava un motore di 2.000 cc per bypassare la norma.

Questo fu un esempio di come il mercato locale italiano dell’automotive venne “drogato” fiscalmente impedendo una vera evoluzione dello stesso e che portò al rischio di veder scomparire tutti i produttori di automobili dal suolo patrio a fine anni 90. I dazi all’importazione hanno lo stesso effetto, impedendo che un mercato possa maturare ed evolversi poiché resta protetto da un’azione diretta dello stato ai danni di produttori più efficienti e, spesso, qualitativamente superiori e, in ultima battuta, a danno di tutti i cittadini stessi

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