Tutti hanno sentito dire almeno una volta del rischio naturale che caratterizza il territorio della penisola italiana. Ed avranno anche avuto modo di sapere sulla fragilità delle regioni in cui viviamo, da nord a sud. Tra gli altri rischi a cui siamo sottoposti c’è quello idrogeologico. Che in realtà di sì riferisce a due fenomeni distinti.
Il primo è quello connesso al deflusso dei corsi d’acqua ed è relativo alla componente prettamente idraulica del rischio. Il secondo è invece da ricondurre alla morfologia del territorio, il quale è fortemente condizionato dalle caratteristiche geologiche, ovvero la natura dei terreni e delle rocce. Che a sua volta si riflette sui fenomeni evolutivi specialmente nel caso dei versanti mediamente acclivi. Poiché l’acqua è uno dei fattori esogeni che modellano il paesaggio i due fenomeni sono spesso trattati in una discussione unica. Con nel complesso effetti più positivi di quanto non si avrebbero trattando distintamente i due aspetti.
Del rischio idrogeologico si parla peraltro anche come conseguenza dei cambiamenti climatici i cui effetti renderebbero maggiormente frequenti fenomeni meteorologici estremi (tempo ridotto, alta severità). È un accostamento ardito, soprattutto perché non si dispone di una scala temporale di riferimento significa per valutare fenomeni che interessano il globo terrestre sin dai primi albori. Anzi, che sono propri della sua evoluzione. Per effetto della ricerca del cosiddetto profilo di equilibrio, infatti, i corsi d’acqua tendono a minimizzare il dislivello con il livello del mare (livello di base), alternando fasi erosive che trasportano grandi quantità di sedimenti da monte a valle e fasi deposizionali durante le quali il fiume supera il proprio consueto corso di scorrimento ed inonda le porzioni limitrofe.
Va detto anche che la misura del rischio è funzione di tre variabili: pericolosità, vulnerabilità ed esposizione. La prima misura probabilisticamente è la verificabilità di un evento di una certa magnitudo. Questa rappresenta il fattore naturale e quello direttamente influenzabile dai cambiamenti climatici in atto. Le seconde sono connesse alla sfera antropica sulla quale l’evento può abbattersi: quanto questa può essere compromessa e quale è il valore delle perdite. Definite e parametrizzate opportunamente le tre variabili è quindi possibile identificare il problema e quindi proporre una soluzione. Che certo non può essere generica.
Deve essere necessariamente riferita al contesto territoriale. Non è pensabile contrastare il rischio idrogeologico a scala nazionale. Si deve fare riferimento alle unità fisiografiche in questione. In particolare, ai bacini idrografici e idrogeologici. Quelle porzioni di terreno entro le quali le acque meteoriche e sotterranee hanno comportamenti ed evoluzioni distinti dalle limitrofe. Le soluzioni solo raramente riescono a fronteggiare la pericolosità del fenomeno. È più frequente che gli interventi riguardino la vulnerabilità dei beni esposti. Si tratta di interventi definiti “non strutturali”. Tra questi rientrano, ad esempio, l’innalzamento degli argini lungo un corso d’acqua. Ma anche la preparazione del sistema e della popolazione a fronteggiare eventi critici: esercitazioni, piani di emergenza, dotazioni di soccorso.
Nel nostro paese tali interventi sono affidati alla direzione centrale ed all’esecuzione periferica del Sistema Nazionale di Protezione Civile. Responsabili Politici, Corpi Armati, Amministrazioni locali, Governo nazionale che agiscono in modo coordinato per contrastare il verificarsi di eventi emergenziali e far fronte alle criticità che dovessero insorgere. Questo tipo di preparazione, fondamentale e di grande importanza, non può tuttavia contrastare alla sorgente le forze naturali in atto. Non lo può fare in nessun modo nel caso del rischio sismico ad esempio. Ed anche per il rischio idrogeologico, come detto, ha potenzialità limitate. È per questo motivo che il fattore “vulnerabilità” resta ad un livello non accettabile. Ed è così che spesso gli eventi naturali che si abbattono su strade, ponti, città ed infrastrutture arrecano ingenti danni. E non meno frequentemente perdita di vite umane.
Se come si è già detto il nostro è un territorio fragile, tale caratteristica è anche da ricondurre ad uno sviluppo territoriale di centri urbani (spesso anche piccoli) scriteriato che non ha tenuto conto dell’evoluzione della sua evoluzione. Spesso dimenticando gli eventi del passato nonostante la loro traccia sia a volte rilevabile anche nei toponimi dei luoghi dove ciò accade. È così che fossi ed impluvi sono stati tombati, aree di espansione naturale dei corsi d’acqua hanno subito pesanti opere di urbanizzazione, zone costiere sono state aggredite. Ma la natura, alla continua ricerca di un nuovo equilibrio, vince queste forzature e passa a recupero dello spazio sottratto.
Prima di chiamare in causa i cambiamenti climatici e le relative soluzioni è necessario agire su livelli di vulnerabilità sui quali è (relativamente) più facile agire. Ma probabilmente meno conveniente, soprattutto a livello politico. Perché sarebbe necessario fare scelte scomode ed assumersi responsabilità ad ampio respiro nonché riconoscere inadempienze del passato, se non vere e proprie colpe. Un modo di fare politica che Papa Francesco ha denunciato nella sua enciclica Laudato Si. Ricordando che “il tempo è superiore allo spazio” ha invitato a esercitare la grandezza della politica pensando al bene comune a lungo termine.