La comunità scientifica, sulla base degli studi e dell’esperienza maturata in questi anni, attualmente considera che i vaccini oggi a disposizione, seppur efficaci e sicuri, non hanno la capacità di essere “sterilizzanti” (cioè di impedire la trasmissione virale), ma solo “protettivi” nei confronti della malattia grave. L’effetto inibente sulla trasmissione potrebbe essere raggiunto da un vaccino che sia in grado di stimolare una risposta non solo sistemica (come quella dei vaccini attuali), ma anche a livello mucosale delle prime vie aeree.
L’importanza della cosiddetta “trained immunity” o immunità allenata, che insorge dopo la somministrazione di un vaccino non specifico per la profilassi contro le infezioni gravi da COVID-19, è stato, fin dai primi momenti della pandemia, oggetto di studio e di interesse. In particolare, l’attenzione si è quasi interamente focalizzata sulla vaccinazione antitubercolare con il vaccino Bacille Calmette-Guerin (BCG), come potenzialmente utile per ridurre le infezioni respiratorie nelle popolazioni più vulnerabili. In questo studio (Alexandra M Blossey e altri) è stata valutata la sicurezza e l’efficacia di un vaccino BCG, geneticamente modificato (VPM1002), come profilassi nei confronti delle infezioni respiratorie gravi, comprese quelle da COVID-19 in una popolazione anziana. È risultato che la vaccinazione con BCG è ben tollerata e che ha un certo effetto nel prevenire le gravi malattie respiratorie negli anziani, anche per quanto riguarda COVID-19. Gli effetti della qualità del sonno nell’influenzare il rischio di suicidio dei pazienti COVID-19, è stata oggetto di un’analisi (Yang Yiyue e altri) condotta in oltre 390 pazienti ospedalizzati per COVID-19 negli ospedali di Wuhan (Cina). Applicando una scala di autovalutazione, si è osservato che la gravità dei sintomi ansiosi, la depressione ed il rischio di suicidio nel gruppo che presentava disturbi del sonno, era superiore a quella del gruppo che non lamentava questi disturbi. A detta degli estensori della ricerca, questo studio, seppur interessante, presenta però il limite di aver utilizzato una scala di autovalutazione e non criteri valutati in modo oggettivo.
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha decretato in questi giorni la fine dell’emergenza COVID-19 negli USA che, come è noto, sono stati uno dei paesi più colpiti da questa malattia e si è in attesa che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) comunichi in maniera ufficiale la fine della pandemia, cosa che avverrà verosimilmente in tempi brevi. In Italia continua il già segnalato trend positivo che indica una discesa del numero dei contagi, dei ricoveri e dei decessi. Anche la letteratura internazionale sembra risentire di questo calo di interesse nei confronti di COVID-19, con un numero crescente di articoli scientifici che riguardano altri aspetti della medicina che in questi anni sono stati oggetto di minore attenzione, visto che questa era polarizzata verso la pandemia. Per quanto concerne le caratteristiche diagnostiche, il test antigenico effettuato con metodica “lateral flow”, rispetto al test bio-molecolare, per la messa in evidenza delle varianti di SARS-CoV-2 nel corso delle diverse ondate della pandemia nel Regno Unito, è stato oggetto di valutazione attraverso una recente ricerca (David W Eyre e altri) condotta dal 4 novembre 2020 al 21 marzo 2022.
Quanto emerge da questo studio permette di meglio comprendere le ondate causate dalle varianti Alfa, Delta ed Omicron. Sono stati infatti studiati oltre 75.000 campioni utilizzando in parallelo le due metodiche e si è in questo modo dimostrato che la sensibilità del metodo antigenico, rispetto al metodo bio-molecolare è stata del 63,2% e la sua specificità del 99,71%. La sensibilità era più alta nelle persone sintomatiche rispetto agli asintomatici, senza differenze di sensibilità tra Delta, Alfa o pre-Alfa, mentre per le infezioni da Omicron si rilevava una maggiore positività al test. La conclusione a cui giungono gli estensori della ricerca è che la metodica antigenica “lateral flow” è in grado di mettere in evidenza la maggioranza delle infezioni, indipendentemente dalle varianti e dallo status vaccinale. Il test si rivela così molto utile per ridurre il rischio di trasmissione del virus, anche se ha una minore capacità diagnostica nei soggetti asintomatici.
É stato compiuto uno studio (William J. O’Brien) che ha coinvolto un numero elevato di veterani statunitensi per valutare il rischio di esiti post-operatori tra i pazienti con una recente infezione da COVID-19. In particolare, lo studio è stato condotto in circa 29.000 pazienti che erano stati sottoposti ad intervento chirurgico di varia natura. Dai risultati emerge che una recente infezione da COVID-19 non si associa al rischio di esiti post-operatori avversi nei 60 giorni post-infezione. Questo studio, che presenta risultati diversi rispetto ai precedenti che indicavano una mortalità più elevata nei soggetti infetti rispetto ai controlli, sottolinea che la decisione di procedere all’intervento chirurgico, dopo infezione recente da SARS-CoV-2, dovrebbe essere basata più sull’esperienza clinica piuttosto che su un intervallo di tempo fisso dopo l’infezione. Uno studio, sempre condotto in oltre 24.000 veterani (Sarah H. Elsea e altri), ha indagato l’associazione del deficit di glucosio-6-fosfato deidrogenasi, che è il deficit enzimatico più comune al mondo, con gli esiti di una infezione da COVID-19. Questo deficit è stato evidenziato nel 9,4% dei veterani con infezione da SARS-CoV-2 e si è associato ad una maggiore probabilità di sviluppare COVID-19 grave, specie nei soggetti maschi neri, di età inferiore a 65 anni ed in quelli bianchi di età pari o superiore a 65 anni. Questi dati sottolineano la necessità di considerare, ai fini prognostici, il potenziale deficit di glucosio-6-fosfato deidrogenasi nelle strategie di approccio all’infezione da SARS-CoV-2. È stata studiata l’associazione tra la colonizzazione di un batterio, lo Streptococcus pneumoniae, nelle alte vie respiratorie e lo sviluppo di una forma grave di COVID-19 (Anna M Parker e altri). In particolare, sono stati raccolti i campioni di saliva da adulti sottoposti a test molecolare per SARS-CoV-2, tra luglio e novembre 2020, nella contea di Monterrey, California e, su questi campioni, è stata testata la presenza di pneumococchi. È risultato che esiste una reazione sinergica nelle alte vie respiratorie tra SARS-CoV-2 e pneumococco, il che suggerisce la necessità di effettuare ulteriori studi per determinare quali siano i meccanismi alla base di questa interazione e quale importanza questa abbia in termini di impatto clinico.