Quando termina un anno e ci si trova alle porte di uno nuovo è prassi consolidata tentare un consuntivo e avanzare un programma di azione futura. Purtroppo, sul fronte dei temi eticamente sensibili – vita, famiglia naturale, libertà educativa e di pensiero – abbiamo molto poco di cui rallegrarci. Ma, come si suol dire, poco è meglio di niente.
Proprio in questi ultimi giorni, i nostri sforzi per ottenere giustizia per il grande mondo delle scuole paritarie – nell’ottica di una libertà educativa che pone nelle mani delle famiglie il diritto di scegliere liberamente la scuola che ritengono più adatta al proprio figlio – ha registrato un piccolo, ma significativo, successo.
Nella legge di bilancio si sono trovati 70 milioni di euro per garantire l’insegnamento di sostegno agli alunni disabili delle scuole paritarie. Certamente si poteva (e si doveva) fare molto di più, ma vogliamo guardare con ottimismo a questo piccolo passo, volendo pensare che deve essere il primo di un percorso che porti a quella giusta parità di trattamento fra scuola pubblica statale e scuola pubblica paritaria, proclamata fin dalla Legge 62 del 2000 (legge Berlinguer) e mai concretizzata nella prassi.
Abbiamo assistito alla chiusura di centinaia di scuole paritarie, che hanno fornito una qualità educativa di eccellenza (non è un caso che larga parte dell’attuale classe dirigente, in ogni ambito, del nostro Paese, proviene proprio da istituti paritari!) per mancanza di fondi, negati contro ogni buon senso, in nome di una stantia e vergognosa impostazione ideologica che continua a sostenere il mantra della scuola paritaria come la scuola “per ricchi”.
Se così è, la responsabilità è di chi ancora si oppone alla più elementare norma di equità sociale in ambito educativo che va sotto il nome di “costo standard di sostenibilità” per alunno. Tradotta in soldoni, significa un assegno annuo che lo Stato riconosce ad ogni famiglia per il mantenimento a scuola di ciascun figlio.
Si raggiungono così due obbiettivi, tutt’altro che trascurabili: da una parte, la vera libertà di scelta della scuola da parte dei genitori (eliminando l’odiosa discriminazione fra famiglie ricche e famiglie povere) e dall’altra un enorme risparmio per lo Stato, quantizzabile in qualche miliardo di euro (conti fatti, con carta e penna alla mano!). Dunque, la soddisfazione – piccola o grande che sia – di cui sopra, è solo lo stimolo che ci obbliga a proseguire nella direzione della vera parità scolastica.
Con le ovvie differenze, stesso discorso vale per il cosiddetto “Family Act” contenuto nella medesima legge di bilancio. Benvenuto all’ “assegno universale” per ciascun figlio a carico, per il quale ci battiamo da molti anni, a partire dal settimo mese di gravidanza (a proposito: finalmente un atto pubblico di riconoscimento del feto come di “uno di noi”!) ma con tutte le precauzioni del caso, a partire dall’attenta sorveglianza che la norma si concretizzi realmente a partire dal primo luglio 2021, e non sia il solito giochino delle promesse mai mantenute!
E, anche in questo caso, già porsi nell’ottica che l’entità dell’assegno debba essere ricalibrato alla luce della “nuova povertà” in cui si trovano oggi le nostre famiglie. A queste che possiamo considerare “note positive”, vanno purtroppo affiancate note negative, a partire da quell’assurda circolare ministeriale che legittima l’uso “fai da te” della pillola abortiva Ru 486, fino alla nona settimana di vita gestazionale.
C’è da chiedersi quale sia la “ratio” di una simile normativa, che non solo non giova a nessuno, ma anzi danneggia tutti! Usiamo il semplice buon senso, e guardiamo lo scenario che ci si apre di fronte: un numero non verificabile di bambini uccisi in più, in un Paese come il nostro che si sta allegramente avviando al suicidio demografico; la donna sempre più abbandonata a sé stessa, privata perfino dell’assistenza sanitaria che la pratica abortiva richiede; l’identificazione culturale e pedagogica dell’aborto “facile” con una pratica contraccettiva; l’idea che una pillola risolve tutti i problemi che una gravidanza complicata o indesiderata porta con sé; la completa esautorazione delle responsabilità dei genitori verso la figlia minorenne; la banalizzazione di un atto comunque drammatico come l’aborto, attestato da migliaia di donne che l’hanno vissuto.
Torna, dunque, la domanda di fondo: “cui prodest?”, chi ci guadagna? La risposta non può che essere una sola: ci perdiamo tutti, e ci guadagna solo la disumana cultura della morte e dello scarto, con i suoi lupi e i suoi orchi, a loro volta spesso “vittime cieche di occhiuta rapina”. Sulla stessa lunghezza d’onda altri fascicoli rimangono aperti: dall’eutanasia attiva alla legalizzazione della droga cosiddetta “leggera”, passando per tentativi vari di uccidere perfino quel fiore all’occhiello di ogni società democratica qual è la libertà di pensiero e di opinione. Dunque, di carne al fuoco ce n’è davvero tanta e non è consentito a nessuno di sedersi in panchina.